CINEMA: epico e digitale

Publié le 31-08-2009

de Alessandro Moroni


BEOWULF e 300 sono due esempi di tecnologia digitale applicata al grande schermo. Ma la tecnologia non è tutto…

di Alessandro Moroni


Cinema, fabbrica di sogni. È trascorso quasi un secolo dall'esordio ufficiale della "settima arte", che ha dato corpo alle fantasie, alle speranze ma anche alle angosce e alle paure di milioni di persone. Lo sfruttamento dei particolari effetti ottenibili con una macchina da presa data fin dalle origini: una delle più classiche icone del film muto (una tappa obbligata, per esempio per chi ancor oggi visita il Museo del Cinema di Torino) è costituita dall'immagine in scorrimento di un treno che, muovendo verso lo schermo, crea nello spettatore l'illusione di poter essere travolto nel giro di pochi secondi. Risultato: cronache del 1920 che riferiscono puntualmente di scene di panico, e di fuggi-fuggi generale del pubblico. Beata ingenuità! Eppure il fatto è emblematico, perché dimostra che i cosiddetti "effetti speciali", così esecrati dai fautori ad oltranza del "film impegnato", nascono con il cinema e con il cinema moriranno.
Evidentemente ogni epoca è segnata dalle proprie innovazioni e peculiarità tecnologiche: per esempio, l'avvento del sonoro prima e del colore poi hanno avuto per il cinema una rilevanza paragonabile a quella che nella storia hanno avuto l'avvento del fuoco, della scrittura e della ruota. Cambiano le tecniche e aumenta la qualità dell'effetto tecnico globale ma non, almeno a priori, la bontà del risultato: posto che non vedo motivi per giudicare un capolavoro del cinema muto come “Metropolis” di Fritz Lang inferiore a “Luci della Ribalta” di Chaplin, a “Casablanca” di Curtiz, a “Quarto Potere” di Welles o a “2001 Odissea nello Spazio” di Kubrick.

La nostra epoca, dalla seconda metà degli anni '70 in avanti, è stata progressivamente caratterizzata dall'avvento della tecnologia digitale a tutti i livelli. Il cinema ha vissuto un progresso tecnologico che spesso si è rivelato uno specchietto per le allodole: registi poveri di ispirazione ma sicuri mestieranti sono stati in grado di confezionare prodotti tecnicamente ineccepibili ancorché fragili come contenuto, in grado quindi di fare il pieno al botteghino ma di cadere presto nel dimenticatoio.
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Va detto che le ricadute non sono state sempre così negative: il software digitale, che in 30 anni è andato sviluppandosi ampliando sempre più le frontiere della "illusione realistica" cinematografica, ha avuto almeno il merito di restituire credibilità a un genere da sempre relegato nell'ambito del cosiddetto cinema "di serie B"; parlo del filmone epico a sfondo fantasy-mitologico, che per decenni ha rasentato la comicità involontaria per il ricorso sfacciato alla cartapesta e ad un'animazione dalla tecnica primordiale (qualcuno ricorderà gli imbarazzanti mostri di cartone dei film, soprattutto giapponesi, negli anni '60).

Il nuovo millennio ha già dato alla luce film molto più in regola sotto quest'aspetto: in particolare, la trilogia del “Signore degli Anelli” del neozelandese Peter Jackson ha fissato una frontiera di riferimento ben precisa, realizzando un prodotto tecnicamente ineccepibile e così robusto, anche in termini di contenuto, da costituire un irrinunciabile elemento di raffronto per qualunque analoga realizzazione futura. Al punto da rendere molto difficile, per non dire impossibile, realizzare un film di tale formato senza rischiare il plagio. Come uscire da questa difficoltà? In nessun modo, se non con un'ulteriore innovazione tecnologica.

Proprio la citata "trilogia dell'anello" di Jackson ha indicato la strada, mettendo sullo schermo un personaggio (Gollum) digitalizzato ma interpretato da un attore in carne ed ossa rivestito di una tuta sensorializzata, la cui eccezionale abilità mimica è servita ad umanizzare il personaggio sottraendogli quel modo di muoversi tipicamente "scattoso" che toglie credibilità alle figure realizzate interamente col computer. Da quel momento questi personaggi mezzi attori, mezzi digitali hanno cominciato a frequentare con sempre maggior sicurezza il grande schermo, fino al punto da fissare un canone. Ed ecco in rapida successione, nell'anno in corso, apparire due film realizzati interamente con questa tecnica: “300” di Snyder, ispirato all'episodio dell'eroica resistenza Spartana alle Termopili nel VI Secolo A.C., e “La Leggenda di Beowulf” di Zemeckis, tratta dalla nota saga nordica pre-normanna.

Si tratta di due film realizzati in "zona di confine": non del tutto film di animazione, ma certamente in un ambito molto diverso rispetto al filmone epico tradizionalmente inteso. E nemmeno, si noti, precisamente identici quanto a tecnica realizzativa: in “300” la sovrapposizione digitale è più evidente in certe sequenze, appena accennata in altre; in “Beowulf” invece il maquillage computeristico è più evidente, al punto che, pur riconoscendo gli attori (alcuni tra l'altro ben noti, come Antony Hopkins, John Malkovich, Angelina Jolie), la vicenda ci viene trasmessa attraverso una patina più ovattata, contribuendo così a collocarla in un contesto leggendario, comunque fuori da un contesto temporale a noi familiare.

Nemmeno la resa è identica. Sotto quasi tutti gli aspetti Jack Snyder con il suo "300" ha deluso, finendo con l'accontentare solo gli agguerriti fans del fumetto di Frank Miller al quale la produzione si è ispirata. E in effetti "fumettistico" è l'unica definizione appropriata per un film monodimensionale nella descrizione dei caratteri, che pigia continuamente il pedale su una violenza parossistica e perpetrata in base ad un'ideologia vagamente razzista e fascistoide tutta ascrivibile al ventesimo secolo: che quindi tutto fa, fuorché rendere giustizia alla differenza tra un Greco e un Persiano dell'epoca classica.

300film.jpg Non parliamo poi del proporre una spiegazione del perché ("machismo" a parte) un oplita greco avesse tanta facilità nel mettere fuori combattimento due, tre, a volte anche quattro avversari persiani prima di essere a sua volta eliminato; e meno che mai di quale fosse la peculiarità di Sparta rispetto alle altre città-stato greche (nel corso del film si ascolta anche l'aggettivo "democratico" riferito all'oligarchia di Leonida; il che suona decisamente risibile).
Al contrario, “La Leggenda di Beowulf” rende giustizia alla saga anglosassone alla quale è ispirato; e, pur con le inevitabili licenze che un film del nostro tempo deve prendersi nei confronti di un testo poetico allitterativo in oltre 3000 versi dell'VIII secolo, ci riporta fedelmente molte delle tematiche delle quali questo sorprendente poema è carico: il senso del fato, l'eroismo mai autoreferenziale e che comunque ha sempre bisogno di autocelebrarsi (splendida la scena in cui Beowulf, re ormai vecchio e stanco, pigramente ascolta il bardo riproporre il suo stesso mito davanti a lui), il leggendario costruito come naturale amplificazione di eventi reali, il lento e inesorabile trapasso dall'era pagana a quella cristiana, la nemesi delle colpe commesse (che ricadono dai padri sui figli) e il "mostruoso", che è sempre specchio di un riflesso interiore, di un inespresso senso di colpa.
Beowulf è un film indubbiamente "colto" e sono molte le raffinatezze che propone, con esiti sorprendenti grazie anche alla qualità della recitazione, che riesce a filtrare dalla patina digitale. beowulf.jpg
Se ne può trarre una lezione molto semplice: la tecnologia è sempre e solo un mezzo espressivo, il risultato finale potrà essere apprezzato o meno, ma pur sempre in base ai criteri che in un secolo hanno fatto la differenza tra il cinema di buona e quello di cattiva qualità. Un consiglio: Beowulf è tuttora nelle sale, correte a vederlo se ancora non l'avete fatto, film così rendono sempre meglio sul grande schermo. Purché non vi aspettiate il solito festival di effetti acrobatici e spettacolari: un po' ce ne sono, ma comunque non tali e tanti da soddisfare gli appetiti degli amanti del genere.
di Alessandro Moroni

 

 

 

 

 

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