CINEMA: "Capitano, mio capitano"

Publié le 31-08-2009

de Alessandro Moroni


Chi conosce questi versi? Fanno parte di una poesia di Walt Whitman, che parla di Abramo Lincoln. E sono stati ripresi in una delle migliori interpretazioni di Robin Williams.

di Alessandro Moroni


È indiscutibile che Robin Williams nel corso di una carriera trentennale e che non accenna a declinare abbia messo in mostra talento da vendere: lo attestano le molte interpretazioni di alto livello fornite sia in ruoli comici, sia in ruoli drammatici. Nondimeno, mi sentirei di esprimere qualche riserva sulla spensieratezza con la quale una volta divenuto attore di successo ha cavalcato l'onda del suo naturale istrionismo, trincerandosi dietro una maschera così sfacciatamente sardonica e sarcastica da togliere un po' alla volta spazio all'approfondimento delle proprie potenzialità artistiche e professionali. Rimane insomma il dubbio che se non si fosse progressivamente adagiato nella riproposizione dei ruoli per lui più facili da rendere sul grande schermo (e forse, aggiungo io, se non avesse dedicato tante energie a mettersi in evidenza nel filone oggi così in voga delle star hollywoodiane impegnate sul versante "liberal"), adesso ci ritroveremmo a parlare di un attore epocale anziché "soltanto" di uno molto bravo.
Non a caso ha saputo regalarci il meglio di sè ogniqualvolta la complessità del ruolo da interpretare lo ha costretto ad imbrigliare le fluviali risorse di una mimica facciale senza uguali: accetterei scommesse circa il fatto che tra 50 anni sarà ricordato molto di più per i ritratti di figure problematiche quali il professor Sayer di “Risvegli” (1990), il dottor Sean Mc Guire di “Will Hunting” (1997, unico Oscar conquistato da Williams in carriera) e, sia pure in misura minore, il robot antropomorfo Andrew Martin de “L'Uomo Bicentenario” (1999) che non per ruoli brillanti quali quello del divorziato travestito di “Mrs. Doubtfire” (1993), o quello dell'omosessuale Armand di “Piume di Struzzo” (1996) o ancora quello del dottore-clown di “Patch Adams” (1998). In realtà chi volesse ammirare l'attore di Chicago al meglio delle proprie potenzialità potrebbe farlo vedendolo all'opera con i due registi più talentuosi che l'abbiano mai diretto, nei due film “La Leggenda del Re Pescatore” del geniale e visionario Terry Gilliam (1991) e nell' “Attimo Fuggente” dell'australiano Peter Weir (1989).  williams.jpg
In quest'ultimo capolavoro l'attore di Chicago, all'epoca 37enne, si cimenta nell'interpretazione del professor John Keating che nel 1959 viene chiamato ad insegnare letteratura alla Welton Academy, il liceo di cui fu allievo. È una scuola rigorosamente tradizionalista aperta solo ai maschi, nella quale la fa da padrona una rigida disciplina legalitaristica, sterile e autoreferenziale: parafrasando il Vangelo di Marco si potrebbe dire che alla Welton il sabato non è mai per l'uomo, ma l'uomo è sempre per il sabato. Keating proverà a rovesciarne i meccanismi e le logiche perverse, instillando nei suoi allievi adolescenti il senso di responsabilità derivante dalla manifestazione delle proprie idee, indicando loro percorsi di analisi letteraria alternativi a quelli imperanti nella scuola (con particolare riferimento alla poesia americana contemporanea) e soprattutto insegnando loro il valore del "momento cardine" nella vita di una persona, occasione unica e irripetibile per una decisione, un gesto, una particolare testimonianza che non può essere rimandata e che, se mancata, può solo essere rimpianta.

A questo proposito va detto che, una volta tanto, la scelta della traduzione in italiano del titolo del film è stata felice: “Dead Poets Society”, la "società dei poeti estinti" che è rimasta più o meno tale in tutte le lingue nelle quali il film è stato tradotto dall'inglese, solo in italiano è divenuta “L'Attimo Fuggente”. Si tratta di un concetto che rende pienamente giustizia al latino "Carpe Diem" al quale il professor Keating fa spesso riferimento, massima latina troppo sovente associata alla necessità di "spassarsela finché si può", ma dal significato intimo ben più profondo e coerente con quanto sopra descritto.

I ragazzi rimarranno talmente colpiti dagli insegnamenti di Keating che alcuni tra loro inizieranno ad incontrarsi in gruppo con lui, fuori dall'orario scolastico, per approfondire il tema della poesia e declamare versi di loro creazione. Il loro insegnante si scontrerà presto con una realtà che non è solo quella rigidamente mummificata delle tradizioni della scuola, ma è solidamente fondata nei nuclei familiari degli allievi, facenti riferimento all'alta borghesia provinciale ultraconservatrice del New England: i ragazzi della Welton sono cresciuti nel culto ossessivo e indistinto di regole che mortificano la responsabilità personale, deferenti ad un autoritarismo spogliato di ogni autorevolezza e con il bisogno costante di qualcuno che decida per loro.
adams.jpg Quando Neil, il ragazzo più sensibile e problematico della classe, si troverà a scegliere tra la propria passione per il teatro (in gran parte alimentata dalle lezioni di Keating) e le rigide disposizioni paterne, si avrà uno sviluppo tragico che provocherà l'allontanamento dell'anticonformista professore dalla scuola: un capro espiatorio al quale addossare responsabilità serve e, nella circostanza, non è difficile da individuare. Nell'indimenticabile scena conclusiva, destinata a rimanere una di quelle a maggior impatto emotivo del cinema di sempre, i ragazzi della classe di Keating sapranno cogliere "l'attimo fuggente" e renderanno al professore un'altissima testimonianza di stima ed affetto; in spregio ad ogni legalitarismo e superando ataviche paure.

“Dead Poets Society” non è un film perfetto: non lo è nella sua esaltazione un po' retorica di quel decisionismo individualista che pure è il pilastro portante della società americana, sviluppatasi fin dagli albori intorno ad una concezione che non esiterei a definire metafisica della libertà e della responsabilità individuali, pienamente supportata dal credo protestante dei "Padri Fondatori". Nondimeno, l'accuratezza estrema della caratterizzazione dei giovani attori (tutti bravi, anche se il solo Ethan Hawke avrebbe poi fatto strada), la vena autenticamente poetica e l'alone di misticismo positivo che campeggia qui come in quasi tutti i film di Peter Weir colpiscono il cuore, lasciandovi un segno indelebile; e la prestazione di Robin Williams è davvero monumentale, con ogni probabilità la più alta da lui resa in tutta la carriera.

di Alessandro Moroni
da Nuovo Progetto agosto-settembre 2008



Dello stesso autore vedi:
INDIANA JONES: quota 4 (con Davide Bracco)

La Bussola d'Oro

CINEMA: epico e digitale

Harry Potter: Piccoli maghi crescono

 

 

 

 

Ce site utilise des cookies. Si tu continues ta navigation tu consens à leur utilisation. Clique ici pour plus de détails

Ok