Antonia Arslan, una memoria di carne

Publié le 21-08-2015

de Annamaria Gobbato

L’autrice de “La masseria delle allodole”, ospite dell’Università del Dialogo del Sermig, racconta la tragedia del popolo armeno.

La storia è maestra se trova allievi. “Il dolore del passato deve aiutarci in questo tempo di paura e di male, in cui la guerra bussa anche oggi alla porta della nostra vita”. Ernesto Olivero sintetizza così l’insegnamento che la storia da sempre offre a chi vuole ascoltarla. Ma la storia è maestra? Era la domanda cui assieme alla professoressa italo-armena Antonia Arslan si è cercato di rispondere ieri sera, durante l’incontro mensile dell’Università del Dialogo Sermig. Le tante persone che si sono ritrovare ad ascoltare la “memoria di carne” della scrittrice hanno potuto rivivere con lei la tragedia della sua famiglia, sterminata in modo atroce insieme a più di un milione di armeni durante il genocidio del 1915. “Il Grande Male” – come lo definiscono i pochi sopravvissuti – lei lo aveva già descritto in libri famosi, “La masseria delle allodole” primo fra tutti. La folle ferocia dei Giovani Turchi aveva pianificato lo sterminio di massa del popolo armeno, antichissimo di cultura e di storia. I silenzi complici delle potenze occidentali e non, hanno completato l’opera.

Anche il silenzio uccide, ma la storia non sta in silenzio. Il negazionismo propugnato dal governo impedisce ancor oggi al popolo turco la conoscenza dei fatti, ogni libro di storia viene vagliato e filtrato prima di giungere sui banchi di scuola. “Raccontare questa sera la tragedia del popolo armeno è una gioia, anche se la gioia è una parola che non ha nulla a che fare con la parola genocidio. Ma la uso ugualmente, perché avere qualcuno che ci ascolta rompe il lungo silenzio che dal 1924 in poi ha coperto ogni eco della nostra tragedia”. Per impedire che il mondo si ricordasse di questo popolo fatto scomparire dalla terra, perfino le bellezze artistiche come chiese medioevali e manoscritti miniati sono state descritte come bizantini. Una cortina di silenzio che si è sparsa come un veleno su tutto il ‘900, permettendo il ripetersi della tragedia anche in altre nazioni, come è avvenuto per la Shoah.

La realtà del genocidio nella documentazione fotografica. Un ufficiale prussiano, Armin Wegner, soldato dell’Impero tedesco nella guerra contro i russi, disgustato dall'orrore di ciò che stava succedendo a uomini, donne, bambini, anziani uccisi in modo barbaro o lasciati morire di fame nel deserto, scattò centinaia di fotografie che oggi sono la più importante testimonianza fotografica del genocidio. Scrisse addirittura una lettera al presidente Usa Wilson, ma non gli venne mai risposto, così come fece con Hitler, anni dopo, con il risultato di essere imprigionato e torturato.

Lo sterminio dell’anima. “È quello avvenuto nei sopravvissuti. Specialmente nelle donne e nei bambini. Chi veniva venduto o rapito dai turchi aveva soltanto più salva la vita fisica. Non quella intellettuale o culturale, perché doveva dimenticare per sempre la propria lingua, i propri usi e costumi. A tutti venne impedita per sempre ogni conoscenza del destino dei propri cari”.

La storia della famiglia Arslanian. La parte della famiglia rimasta in Turchia – Arslanian è il cognome d’origine - venne sterminata così come descritto ne “La masseria delle allodole”. Morirono tutti i maschi, bambini compresi. Si salvarono solo le donne e un maschietto perché scambiato per bambina. “Mio nonno si salvò grazie ai suoi figli. Era emigrato in Italia a tredici anni per studiare nel Collegio armeno di Venezia, si era poi sposato con un’italiana, aveva due figli che studiavano ancora e aspettò quindi il termine delle lezioni – a fine maggio del ’15 – per andare a trovare il fratello in Turchia come sognava da anni. Il fatto di essere un armeno cittadino italiano non gli avrebbe salvato la vita.

Una diaspora senza ritorno.“Ciò che oggi è ancora sottovalutato è che in un popolo costretto ad una diaspora così terribile per la quale non esiste ritorno, si tramanda di generazione in generazione un senso di isolamento, un senso di nostalgia vaga per qualcosa che non ti sarà più dato, che qualche volta diventa un’aspirazione verso quella patria perduta, che diventa una patria celeste. Questo lo dice molto apertamente il poeta Daniel Varujan nella famosa raccolta “Il canto del pane”. [...] Essi e i loro figli sono segnati per tutta la vita da questa sindrome. Questa li porta ad una sorta di chiusura in se stessi, sia in Italia dove sono poco più di 2mila, in Francia in cui sono circa 600mila, negli Stati Uniti 1 milione e mezzo, in Russia dove sono quasi due milioni… Essi vivono una forte paura dell’esterno e questa paura si esprime in una grande sensazione di perdita, di isolamento, in una ricerca continua di un luogo dove sentirsi a casa, del suono di una patria perduta dove vivevano da quasi tremila anni e dove non si tornerà mai più”.

La memoria come valore concreto. “Non ha senso dire ‘facciamo memoria perché non succeda mai più’: questa è pura retorica. Invece, dobbiamo cercare di capire perché è successo e ciascuno di noi deve impegnarsi per non ripeterlo… Non bisogna pensare ‘io non lo farei mai’, perché in ognuno di noi c'é il massimo del bene e il massimo del male. Ognuno di noi è capace di tutto. Il bene e il male dipendono sempre da una scelta individuale. Ognuno deve mettersi davanti a se stesso e guardarsi. Perché ogni giorno è una scelta tra il bene e il male”. Forse questo è l’insegnamento più importante della testimonianza di Antonia Arslan: la Storia si decide nelle piccole e grandi scelte di ogni giorno. Ognuno è responsabile del bene e del male che vi immette. Se coltivo la paura e la voglia di vendetta, sarà ancora e sempre genocidio, ancora e sempre guerra. La pace dipende anche da me.

Annamaria Gobbato

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