LE GUERRE D'AFRICA

Publié le 31-08-2009

de Mauro Palombo


Da molto tempo, in Africa si combatte il maggior numero di guerre al mondo.
E le più sanguinose.

 

a cura di Mauro Palombo

 

 Dal 1980, non meno di 28 Paesi dell'Africa sub-sahariana sono stati in guerra. Su 25 milioni di sfollati nel mondo - i più esposti a ogni emergenza e violenza - 13,5 sono africani (10 milioni tra Sudan, Angola, e Congo); su 22 milioni di rifugiati fuori dal loro Paese nel mondo, 8 sono africani. In 10 anni, 2 milioni bambini morti, da 4 a 5 quelli mutilati, 1 milione ha perso i genitori (Unicef).
I conflitti sono la causa più frequente di emergenza alimentare e malnutrizione, causando immense perdite di produzione agricola, e facendo regredire ogni strategia che promuova vite più lunghe, più sane e più produttive. Si è detto che "cessano le guerre, ma la guerra no".

 

Le radici dei conflitti sono sempre intricate. Nel caso dell'Africa riflettono naturalmente diversità e complessità di un vasto continente, con alcune similitudini ma molte sfaccettature, e che non meno dell'Europa, non può essere considerato genericamente come un insieme uniforme. Hanno peraltro anche elementi comuni, in cui storia e geopolitica marcano un ruolo essenziale.
L'epoca coloniale ha lasciato confini in molti casi tracciati a tavolino, contribuendo a alimentare conflitti tra stati, e minando a priori la loro coesione interna. Ha lasciato anche l'eredità di una gestione politica autoritaria - sopprimendo valori della autorità tradizionale, o esasperandone i limiti; in gran parte degli Stati resisi indipendenti i leaders hanno realizzato una gestione fortemente centralizzata del potere politico ed economico, finendo col sopprimere ogni forma di pluralismo. Questo sistema di governo non ha potuto che alimentare corruzione e abusi di potere.
Come ovunque, una gestione del potere basata sul "chi vince prende tutto" non può che condurre ad un alto livello di tensione nella lotta per il controllo politico. In queste condizioni, all'interno di Stati multietnici - caso comune in Africa - la competizione esacerbata conduce sovente a una politicizzazione violenta della etnicità stessa. Dove la politica interna ignora i diritti umani, non è poi infrequente che difenda il suo potere istigando o propagando conflitti anche fuori dai suoi confini.
La situazione di molti Paesi è poi l'emblema di una ricchezza che non fa la felicità. Molti interessi esterni all'Africa se le contendono. In primo luogo le risorse più preziose: petrolio (il golfo di Guinea è più vicino ai mercati di sbocco statunitensi ed europei, e tendenzialmente più controllabile del Medio Oriente), diamanti (la cui esportazione illegale è relativamente semplice - Angola, Congo, Sierra Leone, Liberia…), minerali preziosi per le tecnologie più avanzate (come il Coltan, che è alla base della occupazione Rwandese del Kivu nella regione dei Grandi Laghi). Le vecchie e nuove potenze coloniali finiscono così in vari contesti a trovarsi in campi opposti a spalleggiare rivali politici, allontanando la ricerca di un compromesso per ottenere il controllo totale, quale che ne sia il prezzo, moderni "cuori di tenebra". In qualche caso invece, dove una sola forza esterna risulta aver acquisito una posizione preminente, è l'opportunità di sfruttare risorse (il petrolio nel Sudan meridionale…) a spingere l'imposizione di un compromesso tra parti in aspro conflitto.
Non sfuggono a queste logiche neppure le risorse meno apparentemente preziose: cacao, caffè, cotone e altro. Se le condizioni di sfruttamento di ricchezze minerarie (e corruzione) impoveriscono le finanze pubbliche degli Stati che con esse potrebbero finanziare sviluppo, la dipendenza esterna nelle ragioni di scambio dei prodotti agricoli incide direttamente sulla miseria dei milioni di individui che li producono.
La miseria dal canto suo è terreno fertile per seminare violenza. Conflitti nascono anche dalla scarsità di risorse (terra fertile e acqua).
I "programmi di aggiustamento strutturale" intrapresi in vari Paesi sotto il controllo del FMI, hanno contribuito a generare tensioni, determinando forti contrazioni della già esigua spesa sociale. Il risentimento di gruppi e etnie già sfavorite dal colonialismo (basato sul "divide et impera") e che percepiscono di non ricevere una quota adeguata delle risorse già scarse, è un altro focolaio di potenziale lotta. Soprattutto nell'Africa subsahariana, anche la crescita dell'Islam - accolto anche come recupero di identità da masse impoverite - dove ispira una radicalizzazione di atteggiamenti e contrapposizioni, non può che aggiungersi e esasperare le tensioni latenti, fino a farle esplodere (Nigeria, Ciad…). Un caso particolarmente grave la situazione algerina.
E anche l'Africa, perfino quella dei Paesi a più scarso sviluppo, può essere un mercato interessante: per assorbire armi leggere, munizioni, mine… pagate in contanti o con pietre preziose di contrabbando, ormai quasi tutto tramite intermediari che riciclano vecchi arsenali. Se non sono loro la causa delle guerre, certo le rendono più lunghe e più letali.
In uno scenario di grande difficoltà esiste qualche segnale di evoluzione. Guerre durate decenni, come in Mozambico, sono cessate, e pare definitivamente. In alcuni Paesi, dopo decenni si è avuta una alternanza al potere che dà possibilità di una migliore gestione, pur con tutti i limiti e i vincoli di scarsità di risorse; è l'esempio recente del Kenya.
La prevenzione dei conflitti inizia e finisce con la promozione della sicurezza delle persone, e dello sviluppo umano. Sono parole ripetute in molte circostanze, e si sa che si finisce per ripetere soprattutto i concetti inascoltati; ma restano la sola via da percorrere, in ogni esperienza storica. Costruire capacità per ciascuno, per ridurre la sua dipendenza, per dare concretezza alla partecipazione, alla libertà di scelta.
Un processo certamente lento, che ha bisogno di tempi lunghi e di continuità in un clima di stabilità. Dove le persone possano sentire la reale possibilità di costruire qualcosa per il loro futuro: e per questo sentirsene responsabili.
Un processo certamente arduo, quanto è più arduo costruire rispetto che distruggere. Ogni iniziativa, ogni passo anche piccolo in questa direzione, è un passo che costruisce la pace. Senza dimenticare che la pesante influenza che potenze grandi e meno esercitano in queste aree, le rende direttamente responsabili di contribuire decisivamente.
a cura di Mauro Palombo
foto di Hector Murundo Masera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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