Non ci sono maestri

Publié le 30-01-2013

de Flaminia Morandi

maestro.jpgNon ci sono maestri? Forse non ci sono discepoli. Un antico adagio monastico dice: quando il discepolo è pronto arriva il maestro. Ma quando un discepolo - cioè ciascuno di noi assetato di esempio e di guida - può considerarsi pronto? Quando è salito, scendendo dentro di sé e acquistando coscienza della propria miseria, a un certo grado di umiltà. L’umiltà infatti non si impara se non dalle umiliazioni.

I maestri ci sono anche in un’epoca confusa come la nostra. Ci sono ma non sono quelli che si vedono. Non sono sulla ribalta mediatica. Non conosciamo i loro volti attraverso i giornali e la tv. Non sappiamo i loro nomi e le loro gesta. I maestri, come le perle nei campi, come le dramme perdute, vivono nell’anonimato e nel nascondimento. Bisogna darsi la pena di andarli a cercare dove la nostra mentalità drogata non sa immaginare.
Gandhi per esempio, chi non lo considera un maestro? C’è persino una pubblicità che lo proclama tale: si vede Gandhi da un grande schermo che ammaestra folle che lo ascoltano rapite nelle piazze del mondo. Ma Gandhi ha dovuto morire ammazzato per diventare un maestro globalizzato.
In vita, solo i pochi che lo seguivano - e faticosamente perché a volte risultava incomprensibile anche a loro - lo consideravano un maestro. Difficilmente il maestro è qualcuno che i contemporanei celebrano come maestro.

Perciò, il primo inganno da vincere nella ricerca di un maestro, è la trappola della fama. È facile illudersi e cercare male: cercare cioè persone che insegnino ad avere successo nel mondo e non persone che insegnino la via per conoscere se stessi, per dare senso, direzione e sapore alla propria vita. La seconda trappola è accontentarsi, non prendersi la responsabilità di sé stessi: pur di non decidere, pur di non prendere la propria vita tra le mani, pur di affidarsi a tutti i costi a qualcuno, anche se non è stato abbastanza provato dal fuoco della vita interiore. Lo staretz Paissy Velickovskij per esempio, il monaco che ebbe l’idea di raccogliere gli scritti patristici nella Filocalia, era uno che non si accontentava. A ventidue anni, quando arrivò al Monte Athos, si rese conto presto che non c’era nessuno che facesse al caso suo. Trovò però Bessarione, un coetaneo, un giovane monaco moldavo esigente e serio quanto lui, che gliene spiegò il motivo.

Un maestro, gli disse, può essere solo qualcuno che ha sostenuto e continua a sostenere in se stesso una dura lotta contro tutti i germi di morte, le passioni che ci assediano, avidità di possesso e di fama, vanità, collera, avarizia. Solo uno così può non ingannare il proprio discepolo. Paissy concluse che c’era una sola via d’uscita: studiare giorno e notte la Sacra Scrittura e le opere dei Padri, cioè maestri sicuri che hanno combattuto fino alla fine, chiedere consiglio ai più anziani, che perlomeno in virtù dell’età hanno raggiunto un po’ di saggezza e di distacco, e imitare i saggi che ci hanno preceduto.
Il maestro è qualcuno che sfida la nostra mentalità. C’è un film russo, Ostrov (L’isola, 2006) che lo spiega bene. Nella Russia del 1942, un capitano sta fuggendo su una nave carica di carbone con un suo soldato che fa da fuochista. Ma i nazisti attaccano la barca. Il capitano è impassibile, non oppone resistenza; il soldato, Anatoly, è terrorizzato, disposto a tutto pur di avere salva la pelle. I nazisti allora gli dicono che se ucciderà di sua mano il suo capitano, lui non morirà. Anatoly spara. Il comandante cade dalla barca nel mare, morto. I nazisti lasciano sulla nave una bomba. La nave si incaglia su un’isola, dove esplode. Resta intatto il carico di carbone.

ostrov.jpg Sull’isola c’è un monastero: Anatoly, roso dal rimorso, chiede di entrare. In monastero continua a fare quello che faceva sulla nave: trasporta carbone dalla nave alla caldaia del monastero, vivendo perennemente in uno stato di contrizione, gridando a Dio tutto il giorno di avere pietà di lui. Gli altri monaci lo considerano strano, fuori di testa: parla poco, e quando parla, dice solo versetti della Scrittura, ai monaci sembra anche a sproposito. Non sanno spiegarsi perché la gente dei dintorni ami tanto questo monaco sporco e puzzolente, e lo venga a cercare, invece di cercare gli altri: loro. Ce n’è soprattutto uno, il segretario del superiore Filaret, Iov, un monaco elegante e azzimato, dai modi educati e politici, che detesta Anatoly con tutto se stesso. Un giorno sbotta e gli chiede: “Come puoi vivere così?”. Anatoly gli risponde con una domanda: “Perché Caino ha ucciso Abele?”.

Arriva al monastero un uomo, un ammiraglio, a chiedere che venga guarita sua figlia. Anatoly dice: “Questa ragazza non è ammalata, è indemoniata e il suo demone lo conosco”. La porta nella sua skit e la libera. Quando la restituisce al padre, il riconoscimento: l’ammiraglio è il capitano che lui aveva creduto di uccidere e aveva soltanto ferito al braccio. Anatoly non ha ucciso nessuno. Ha restituito la figlia all’uomo che aveva tradito, che lo ha perdonato, da sempre. Da subito, totalmente. Ma ora Anatoly è anche visibilmente perdonato. L’umiliazione e la preghiera incessante in cui ha vissuto ha fatto toccare la terra con il cielo. Percepisce che è arrivata l’ora della morte; in pace si mette da sé nella cassa, aspettando il momento.

Al suo funerale, Iov in lacrime porta sulle sue spalle la bara di Anatoly come Anatoly portava il carbone: comincerà adesso per lui, Caino, il cammino dell’espiazione, per non avere capito quanto era gradito a Dio il profumo che saliva a Lui da questo Abele, povero sporco monaco penitente, vigliacco, traditore, omicida. Era lui, lì sull’isola, lì nel monastero, l’unico maestro.


Flaminia Morandi
NP aprile 2007

 

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