Scrivo con la luce

Publié le 23-10-2021

de Annalisa Vandelli

La vita può cambiare da un momento all'altro, quando senti che la strada è altrove.
Ad Annalisa Vandelli è successo nel 2007: un lavoro sicuro come ufficio stampa di una grande azienda di Modena lasciato per un salto nel buio apparente. Oggi è una fotoreporter tra le più stimate con lavori che l'hanno portata in giro per il mondo, pubblicati da testate prestigiose. Dall'Africa all'America Latina, dall'Asia al Medio Oriente, la stessa cifra, lo stesso impegno. «Etimologicamente, fotografare significa scrivere con la luce, e la mia sfida è prendere alla lettera questo significato, ossia cercare la luce anche dove sembra non esserci».

Come si fa ad avere questo sguardo?
È una sfida costante, perché per me la luce è il sacro. E anche nel posto più derelitto della terra il sacro splende.
E quindi la sfida è incontrarlo, perché spesso siamo noi a non vederlo, dobbiamo imparare. In fondo, la fotografia è un pretesto, la vera avventura è calarsi in una realtà "altra" ma che al tempo stesso è la nostra.

Qual è stata la scintilla che ti ha portato a cambiare vita?
Io ero già andata alcune volte in Kenya e avevo avvertito un qualcosa che mi lavorava dentro. Però razionalizzavo, cercavo di far quadrare i conti come ci insegna la nostra cultura occidentale.
A un certo punto mi sono semplicemente detta: ma perché devo far quadrare tutti questi conti? Cioè, se sento dentro di me che sono nata per una cosa, perché per forza la devo imbrigliare in altro? E questo ha fatto scattare la scintilla, insieme ad una serie di incontri che hanno stratificato questa consapevolezza…

Che sapore ha avuto la tua scelta?
È stato un disancorarsi, cosa che ci spaventa molto qui in Occidente.
Siamo nella società dell'ansia, che pretende di controllare tutto, soprattutto il futuro. Se c'è una cosa bella che mi hanno insegnato gli Africani al contrario è proprio vivere il presente. È anche questa la cifra del mio lavoro: parti con un'idea, ma ti accorgi che poi la realtà la cambia.

Nei tuoi viaggi hai incontrato gli ultimi della Terra, persone che soffrono, che fanno fatica. Che cosa hai imparato da loro?
Penso a tanti profughi, una parola terribile perché cancella l'identità delle persone. Se ci pensiamo è assurdo ridurre tutto a macrogruppi, a numeri. Quando le persone diventano numeri, diventano cose eliminabili senza nessun tipo di problema. Ecco l'incontro con queste persone mi ha insegnato l'etica del volto: io sono io, tu sei tu, noi siamo molto di più della nostra condizione.

Un punto della Lettera alla Coscienza recita che la coscienza è piangere con chi piange senza strumentalizzare la sofferenza. Questo è un rischio del fotoreporter. Come si fa a starne lontani?
Prima di tutto non bisogna pensare solo ai propri obiettivi. Io sono una free lance e quindi devo lavorare per mangiare, ma se penso solo a quello perdo la cosa più importante: il racconto. Bisogna avere chiara la differenza tra la miseria e la miserabilità, il discrimine tra la denuncia e la strumentalizzazione della sofferenza. Per questo, mi è capitato di rinunciare a foto che avrebbero spaccato, ma questo spostamento dell'ego non è stato inutile, perché alla fine è ciò che fa emergere il tuo stile.

Che ruolo ha avuto nella tua vita la coscienza?
Credo che la coscienza si formi attraverso le esperienze. Sono cresciuta in una famiglia cattolica, quindi sapevo cosa non si dovesse fare. Ma a un certo punto ho sentito di confrontarmi con le cose che mi avevano insegnato per arrivare a un impasto di convinzioni vere. Ho capito sulla mia pelle anche quanto sia fragile la coscienza.

In che senso?
Era il 2007 e mi trovavo ad Addis Abeba in Etiopia. Stavo percorrendo una strada e ad un tratto vedo un bambino sdraiato a terra vicino ad uno scolo per la fogna, a testa in giù; probabilmente era moribondo.
Senza farci caso, lo scavalco ed arrivo fino al semaforo successivo.
All'improvviso mi accorgo di quello che avevo fatto. La cosa tremenda della coscienza è questa: se non stai attento ti abitui a cose inammissibili.
Quel bambino che ho scavalcato mi ricorda proprio questo. Ecco cosa è la coscienza: è quella cosa che anche attraverso la tua abiezione deve darti dei paletti, ma attraverso l'esperienza.
Io ho bisogno che la realtà mi entri dentro con fragore, poi capisco e non arretro più.


Annalisa Vandelli
NP Focus
giugno / luglio 2021

Ce site utilise des cookies. Si tu continues ta navigation tu consens à leur utilisation. Clique ici pour plus de détails

Ok