Ricevendo i “retornados” sulla pista di un aereoporto...

Publié le 01-12-2014

 

In attesa del prossimo incontro dell'Università del Dialogo sul tema: "Ero straniero - Sul cammino dei migranti" con Alejandro Solalinde e Leticia Gutierrez (venerdì 5 dicembre, 18.45, Arsenale della Pace) pubblichiamo la testimonianza di Suor Valdete Willeman (che troverete anche su NP Dicembre 2014). Brasiliana e missionaria scalabriniana, Valdete è direttrice del “Centro di Attenzione al Migrante di ritorno” di Tegucigalpa, Honduras.

Intervenuta ad un incontro del martedì all’Arsenale della Speranza di San Paolo, ci ha raccontato il suo contatto quotidiano con il dramma di migliaia di onduregni costretti a rimpatriare dagli Stati Uniti.



Lavoro sulla pista dell’aereporto di Toncontin, in Honduras. La mia missione è ricevere gli emigranti onduregni che non ce l’hanno fatta ad entrare negli Stati Uniti e sono stati costretti a rimpatriare. Sono soprattutto donne e bambini, ma anche molti adolescenti. Gli uomini, essendo più robusti, hanno più possibilità di successo lungo il cammino infernale de “la rota migratória”.

Gli onduregni che cercano di andare negli USA devono passare per il Guatemala e per il Messico ed è proprio lì che la situazione peggiora, in balia dei cosiddetti “coyotes”, le guide che portano i clandestini sino alla fontiera nordamericana, veri e propri trafficanti e sequestratori. Per fare questo percorso, gli onduregni devono salire sulla famosa “bestia”, il treno merci che passa, ma non si ferma. Chi vuol salire deve saltarci sopra e accettare il rischio di cadere, di ferirsi, di perdere una gamba o un braccio, di morire schiacciato. Chi sopravvive al treno, deve affrontare il deserto. Gli emigranti non possono permettersi di pagarsi un pullman e allora camminano, magari venti, trenta chilometri al giorno, tra mille insidie, i serpenti, gli animali pericolosi. Per sfuggire ai “vigilantes” si nascondono sotto i cactus e molte volte i “coyotes” li abbandonano, soprattutto le donne e i bambini perché sono lenti, col pericolo di morire per mancanza di acqua, di cibo o asfissiati dal calore.

Un’altra sfida è l’attraversamento del Rio Bravo, il fiume che a partire da El Paso, segna la frontiera tra il Messico e gli USA: è pericoloso e molti non riescono ad attraversarlo e muoiono annegati. Lungo tutto il percorso poi si corre il rischio di essere violentati, abusati, ma non è ancora finita... Chi è sorpreso dalla polizia di frontiera viene arrestato e rinchiuso per almeno tre mesi in attesa di rimpatrio. Anche qui non mancano le umiliazioni, i soprusi. Una volta in carcere, agli immigrati vengono tolti i vestiti e fatta indossare l’uniforme del carcere, come se fossero delinquenti. I vestiti tolti non vengono lavati, ma solo custoditi in un dipartimento e poi riconsegnati, così come sono, il giorno del rimpatrio.

Quando il giorno arriva, vengono ammanettati alle gambe, ai piedi, alle mani. Durante il volo non possono andare in bagno e non importa se il volo viene da Santo Antonio, da Houston o da altre cittá del Texas. Quando l’aereo atterra in territorio onduregno vengono loro tolte le manette e fatti rimanere seduti, in silenzio. Sporchi, sconfitti ed impauriti per tutto quello che hanno vissuto. È il momento in cui noi saliamo sull’aereo per riceverli.

Il loro sogno americano è finito. Il sogno, unico e necessario, di sopravvivere all’estrema povertà e alla violenza cronica del narco-traffico. Il sogno di trovare un lavoro negli Stati Uniti, mandare i soldi alle famiglie per dare una possibilità di istruzione ai figli, curare un parente... Fine! È finito soprattutto per coloro – e sono tanti – che tornano dentro una cassa: non c’è più speranza di farli tornare in vita, l’hanno già data lungo “la rota migratória”.

Molte volte proviamo impotenza, rabbia, ma poi preghiamo: non possiamo lavorare con i migranti senza la preghiera, senza Dio con noi. Quando saliamo, cerchiamo semplicemente di non aver paura dei loro sguardi, del loro odore, del loro respiro, di toccarli e cerchiamo di far capire: “Tu sei importante, tu sei a immagine e somiglianza di Dio”.

Tutte le volte che salgo la scaletta di quell’aereo ho una frase che dico per me, in cui chiedo a Dio: “Signore, fa che io ti veda in ogni volto”. Sono centinaia, ma ognuno di loro è diverso, ognuno è una storia e io devo rispettarla, ascoltarla. Desidero vedere in ognuno il volto del Cristo pellegrino. Chi sono io? Molti dicono: “Che odore forte, è terribile!”. No! È l’odore di una persona, non può essere altrimenti, è anche questo è a immagine e somiglianza di Dio. Loro sono la mia famiglia e io sono come loro, non sono nulla di più. La mia preghiera, molte volte, è la storia di uno di loro.

 

 

 

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