Sermig, i primi 25 anni dell’Arsenale della Speranza

Publié le 15-02-2021

de Redazione Sermig

LA VOCE E IL TEMPO

Sermig, i primi 25 anni dell’Arsenale della Speranza

di Gian Mario Ricciardi - 11 Febbraio 2021

La porta è piccola, nel mezzo di una strada senza storia nella prima periferia di San Paolo. Poco avanti una chiesa ora parrocchia (affidata al Sermig), a dieci minuti la stazione degli autobus. È lì che bussiamo io e i miei due fratelli, don Piero e Tino. È il 16 luglio del 2013. Con noi, in fila almeno un centinaio di disperati. Sono gli invisibili di una metropoli di 20 milioni di persone. Arrivano da un giorno qualsiasi ‘fuori dal villaggio’, ‘fuori dalle porte’, gli scarti del Brasile ricco (con il più alto numero di elicotteri al mondo), l’Amazzonia insanguinata, le favelas.

Ci accolgono con un sorriso spiazzante due preti Simone, Marco e Gianfranco Mondino. Davanti a noi il grande cippo come all’Arsenale della pace di piazza Borgo Dora, e la scritta: «La bontade desarma». Là, oltre le case i binari della ferrovia che portava gli immigrati. Quanti italiani sono passati, gli occhi gonfi, una valigia di cartone, tanto magone. Sulla sinistra le grandi stanze per riposare (ognuna con i letti, le coperte, le lenzuola profumate, le docce, i servizi, i tavoli, le prese della luce). Al centro una cappella minuscola, scarna, povera, il Santissimo, la Bibbia. Richiama nelle panche, nel tabernacolo, nel crocefisso l’arsenale di Borgo Dora a Torino. Anzi, sembra un pezzo di quello. Più avanti il refettorio che funziona dalle 4 del mattino perché i poveri si alzano presto, attraverseranno gli spazi della grande città per salutare, chiedere, abbracciare e tornare, sull’imbrunire.

«Quando siamo arrivati ho capito che avremmo dovuto farci bambini di strada con i bambini di strada e poi ancora sofredor da rua con i sofredores da rua. Nel 1996, a San Paolo, quando sono entrato per la prima volta nella vecchia Hospedaria dos Imigrantes, la Casa della quarantena degli immigrati che cercavano fortuna in Brasile, tra cui quasi un milione di italiani, la mia vita è cambiata».

Siamo nell’Arsenale della speranza. Un nome scolpito anche dal cardinale Paulo Evaristo Arns, già Arcivescovo di San Paolo. Voleva un porto per i più poveri, un servizio che li aiutasse a ritrovare la loro dignità. Un sogno che è realtà. Ernesto Olivero, fondatore del Sermig, rivede i passi di questa avventura dalle sfumature dell’incredibile: «Questi primi 25 anni dell’Arsenale della Speranza hanno allargato la nostra strada. Oggi le parole che mi accompagnano sono due: responsabilità e grazie».

In punta di piedi (ma con un certo appetito perché l’aereo era low cost e niente pranzo) violiamo la sera dei senzaniente. Quante vite, quante storie. «Molti hanno solo una borsa di nylon ed un pezzo di cartone per ripararsi dal caldo e dal freddo». Don Simone s’infila tra corridoi e stradine fino alla cucina. «Mettiamoci in fila, dietro loro, è segno di rispetto. Non siamo diversi». Un gesto che mi colpisce al cuore.

C’è una sequela di tavoli di graniglia come i nostri di una volta. Si mangia: riso cucinato con aglio e cipolla come nelle favelas, insalata, pollo, una banana, acqua. È l’essenziale, dato col cuore. Norberto Bobbio aveva scritto all’amico Ernesto: «Chi vuole fare il bene, deve farlo bene. Se devi dare da mangiare agli affamati, non dargli soltanto della brodaglia. Se devi vestire gli ignudi non dargli i pantaloni di tuo nonno… Sono cose ovvie, ma è bene non dimenticarle mai».

Ci sono regole e le rispettano tutti. Incredibile perché gli abitanti della strada non amano le regole. Ma anche una città sotterranea come questa ha tempi, code, pause. All’ingresso si posano coltelli, armi e chi è fatto o ubriaco aspetta che gli sia passato. Poi entrerà. Arrivano, sia pure alla spicciolata, tra le 1.000 e le 1.500 persone ogni sera. Io c’ero ed ho provato.

È così ogni giorno da un quarto di secolo. Da quando qualcuno l’ha chiesto al Sermig e poi l’ha sorretto in tutta l’organizzazione. Tra questi c’è Dom Luciano Pedro Mendez de Almeida, già presidente della Conferenza episcopale brasiliana. Lui c’era e c’è anche ora che non c’è più. Con lui e con Ernesto l’Arsenale de la esperancia è quella porta persa tra le strade che l’ha tenuta aperta sempre, 24 ore su 24. Anche oggi come il 1° febbraio del 1996.

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