Boban, il tassista di Belgrado

Publié le 23-08-2011

de Redazione Sermig


A Belgrado per partecipare ad un convegno sulla de-istituzionalizzazione dei disabili, l’autore, direttore di HP-Accaparlante, trimestrale della Erickson dedicato all’handicap, ha colto l’occasione per interessanti osservazioni sul rapporto tra cultura e strutture sociali.

di Claudio Imprudente

 

Nella vita a volte capitano coincidenze allarmanti. Lì per lì piacevoli, ma poi anche allarmanti.
Arrivati all’aeroporto di Belgrado per partecipare alla conferenza “De-istituzionalizzazione, inclusione sociale e disabilità: i prossimi passi e le esperienze da vari Paesi”, promossa dalla Cooperazione Italiana allo Sviluppo (Ministero degli Esteri), siamo stati accolti da un tassista dal cognome quantomeno evocativo per un milanista spudorato come me: Boban. Il quale, peraltro, era alla guida di una macchina riadattata al trasporto disabili piuttosto nuova e del tutto simile alla mia. Doppia coincidenza che poteva anche farmi sognare che Boban, il calciatore, fosse diventato il mio autista personale… Durante i giorni in cui Boban, l’autista non calciatore, è stato a nostra disposizione, abbiamo avuto modo di parlargli e di chiedere alcune informazioni riguardo al suo lavoro e alla situazione dei trasporti per disabili a Belgrado.
carrozzina.jpg A proposito, la città conta circa tre milioni di abitanti ed un numero di disabili che si aggira attorno ai 300.000, non pochi. Del resto Belgrado, come altre città, ha subìto anni di guerra e mesi di bombardamenti, le cui conseguenze sono facilmente immaginabili, per quanto possiamo inventarci nomi creativi coi quali chiamare certe missioni, tipo guerra umanitaria… Pensavamo a qualche errore di comprensione, dovuto all’inglese che tutti parlavamo in modo un po’ stentato, invece la situazione descritta da Boban è tanto vera quanto incredibile, incredibile proprio perché vera. E perché sono reali altri aspetti che con il nostro aneddoto hanno molto a che fare. In pratica, l’automobile per il trasporto disabili di Boban era l’unica della città, e nei giorni in cui lui è stato a nostra disposizione, in tutta Belgrado non era disponibile nemmeno un mezzo che potesse garantire quel servizio di trasporto.

Ma la dis-organizzazione dei trasporti di Belgrado non è che il sintomo visibile di una situazione generale che tende all’esclusione sociale tout court delle persone disabili. Le strutture e le politiche sociali, infatti, dipendono direttamente dalla visione che abbiamo di certi fenomeni, dalle priorità che riconosciamo come tali, dal valore che attribuiamo a determinati bisogni, esigenze e desideri. È allora la (sovra)struttura culturale a determinare l’esistenza di una precisa struttura organizzativa dei servizi e delle politiche che riteniamo essenziali. È dalla visione del mondo che discendono certe pratiche, non il contrario.

Cerco di spiegarmi meglio. Se a Belgrado le persone disabili vivono tutte in istituti, che bisogno c’è di immaginare un sistema di trasporti che possa facilitare la loro azione, la loro visibilità nella scena sociale? Se il pensiero prevalente, la cultura diffusa riconoscono ancora come legittime le politiche di istituzionalizzazione delle persone con deficit, prevedo che non sia facile decretare dall’alto politiche di segno diverso. Devono prima trovare spazio e diffondersi idee e sensibilità differenti.
So che le cose non sono così semplici e lineari e che spesso i cambiamenti più significativi sono dovuti alla forza del pensiero di poche persone (Basaglia, ad esempio) o di pochi attori sociali. So anche che molte istanze si sono affermate dapprima come voglia di riscatto da parte delle famiglie, delle associazioni, ecc. più direttamente interessate. Ma queste, in Italia e altrove, hanno trovato col tempo canali di vario tipo per diffondersi, per intraprendere il cammino che potesse renderle di dominio ed attenzione pubblici. Di farsi cultura condivisa.

A Belgrado - questo il sentire comune - deistituzionalizzare vorrebbe dire solamente creare dei problemi laddove non esistono… perché complicarsi la vita? Perché rischiare di immettere sul mercato del lavoro dei potenziali concorrenti?
Quello che manca, evidentemente, non sono le persone disabili, ma una cultura sufficientemente diffusa che, al contrario, voglia problematizzare la questione e renderla oggetto di riflessione e, poi, di azione politica che possa incidere praticamente, materialmente sulla vita di tante persone.

Perché vi ho raccontato l’episodio di Belgrado? Non per fare confronti con la situazione in Italia, ma perché ai miei occhi ha confermato l’importanza dell’aspetto culturale per mantenere alta la tensione e l’attenzione su certi temi, proprio qui in Italia. C’è ancora strada da fare e soprattutto tanta materia sulla quale vigilare perché non si facciano passi indietro. Non possiamo mai dare per scontata l’impermeabilità del tessuto sociale a certe derive: è necessario di conseguenza portare avanti parallelamente un discorso sui servizi, le leggi e le opportunità materiali, ed un altro, ripeto, essenziale, che si rivolga agli aspetti culturali. Ben sapendo che le involuzioni in questo campo sono più difficili da prevedere, cogliere e, poi, contrastare.

Il viaggio a Belgrado è stato quasi un viaggio nel tempo: rispetto alla disabilità sembrava di essere tornati all’Italia degli anni ‘60 - ‘70, quando i Beatles spopolavano. Eppure, ritornato al futuro, è servito per accrescere la consapevolezza che l’azione di vigilanza nel nostro Paese va praticata con tenacia ancora maggiore: e voi siete tutti arruolati!

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