Diritti universali

Publié le 23-03-2023

de Edoardo Greppi

Da questione dei singoli Stati a patrimonio dell'ordinamento internazionale.

L’ambito normativo della protezione dei diritti umani non ha origine dal diritto internazionale. Esso si colloca dapprima negli ordinamenti interni: la matrice si rinviene nei grandi testi classici del Settecento e dell’Ottocento, nel Bill of Rights inglese del 1689 e poi nelle Dichiarazioni americane del 1776 e del 1787 e in quella francese del 1789 che, a loro volta, con diverse formulazioni e sfumature, sono state trasposte nelle nostre costituzioni moderne, soprattutto in Europa occidentale e in Nord America.

Queste formulazioni giuridiche affondano le radici in un plurisecolare pensiero europeo, religioso e laico, molto ricco di contributi importanti. Il passaggio da un livello di riconoscimento e di protezione negli ordinamenti statuali a uno internazionale è avvenuto dopo la Seconda guerra mondiale, quando sono stati adottati, soprattutto ad opera delle Nazioni Unite (e, per l’ambito regionale europeo, del Consiglio d’Europa), importanti strumenti internazionali di protezione dei diritti umani: dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948 ai Patti delle Nazioni Unite sui diritti umani del 16 dicembre 1966; dalla Convenzione del 9 dicembre 1948 sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio alla Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965; dalla Convenzione del 1973 sulla eliminazione e la repressione del crimine di apartheid alla Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione delle donne del 1979 e a quella dei diritti del bambino del 1989. Grazie a queste norme, la tematica dei diritti umani ha cessato di appartenere alla sfera della giurisdizione esclusiva, della domestic jurisdiction degli Stati, per entrare in un ambito giuridico vasto e complesso, fatto di interazioni tra diritto internazionale e diritto interno, di principi e regole di respiro universale. L’individuo si è affacciato con un profilo giuridico preciso in una comunità internazionale nella quale era tradizionalmente estraneo. L’ordinamento giuridico della comunità internazionale appare oggi particolarmente attento alla garanzia di un’effettiva tutela dei diritti umani. Tuttavia, la strada appare ancora lunga e impervia.

Dai trattati di Westfalia del 1648, il diritto internazionale si è consolidato come l’insieme delle norme giuridiche destinate a regolare i rapporti tra gli Stati, intesi come enti superiorem non recognoscentes. Questa esigenza fondamentale ha giustificato la formazione progressiva e la consacrazione del principio dell’obbligo di rispettare la domestic jurisdiction, del divieto di intervento negli affari interni di uno Stato: «La casa dell’uomo è il suo castello; possono entrarvi il vento e la pioggia ma non il Re d’Inghilterra», secondo un’antica formulazione inglese.

Gli orrori della Seconda guerra mondiale, i crimini di guerra e crimini contro l’umanità hanno prodotto una forte reazione della comunità internazionale. La costituzione dell’ONU e l’introduzione tra i suoi scopi la tutela dei diritti umani hanno rappresentato il fondamento normativo per un’internazionalizzazione della garanzia dei diritti fondamentali della persona umana. Questi, poi, sono stati proclamati solennemente nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. La persona umana veniva ad affacciarsi alla ribalta di un ordinamento che tradizionalmente riconosceva come soggetti ed “attori” soltanto gli Stati. Questi, nella sfera della loro domestic jurisdiction, consideravano l’essere umano un mero oggetto della loro potestà normativa. Il rapporto tra lo Stato e gli individui era inteso come di esclusiva pertinenza degli organi dello Stato. Nell’esercizio della sua potestà di dominio sul territorio, lo Stato era anche titolare di una correlativa potestà di imperio sugli individui, che incontrava eventuali limiti soltanto nelle norme interne. Con la Dichiarazione universale, in uno strumento normativo internazionale, si afferma che tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti e che gli Stati sono tenuti a riconoscerli e rispettarli.

Tuttavia, la Dichiarazione è stata adottata dall’Assemblea generale, che non ha il potere di decisione (atto normativo vincolante) ma solo quello di raccomandazione (atto non vincolante). Seppure solenne, di alto valore politico e morale, resta uno strumento privo di efficacia vincolante. Gli Stati hanno, quindi, adottato trattati multilaterali in materia: i Patti del 16 dicembre 1966, sui diritti civili e politici e sui diritti economici sociali e culturali. Questi sono strumenti giuridici che vincolano gli Stati che li hanno ratificati. Tuttavia, hanno compiuto questo rilevante passo senza accettare fino in fondo tutte le conseguenze che questo implicava, soprattutto in tema di rapporto tra internazionalizzazione della tutela dei diritti e limitazione della sfera della domestic jurisdiction. In altre parole, l’effettivo controllo del rispetto dei diritti umani resta essenzialmente affidato agli organi degli Stati.

In virtù del generale obbligo che incombe sugli Stati di adeguarsi ai precetti dell’ordinamento internazionale, gli Stati stessi devono assicurare che le persone nella loro giurisdizione godano dei diritti fondamentali. Ma che cosa succede se lo Stato non garantisce questa tutela? Il rimedio resta quello dei giudici nazionali, cui spetta la funzione di controllare che lo Stato e i suoi organi rispettino le norme che sono state ratificate e introdotte nell’ordinamento interno.

La storia mostra che non solo gli Stati sono piuttosto riluttanti ad adoperarsi per garantire questa tutela effettiva, ma anche che sono spesso essi stessi i responsabili diretti o gli istigatori del compimento delle più gravi violazioni dei diritti dell’individuo. Il problema si sposta, dunque, dal piano della elaborazione di norme in sede internazionale a quello dell’effettivo ed efficace controllo del loro rispetto.

Per un’effettiva tutela dei diritti umani, il miglior modello possibile è da ritenersi quello rappresentato dalla Convenzione Europea per la salvaguarda dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Roma, 4 novembre 1950), che ha predisposto – nell’ambito del Consiglio d’Europa – un meccanismo giurisdizionale efficace, incentrato su una Corte europea dei diritti dell’uomo, che pronuncia sentenze vincolanti gli Stati e che accoglie i ricorsi degli individui. Occorre ricordare sempre che spetta essenzialmente agli Stati il compito di garantire agli individui un effettivo godimento dei diritti fondamentali. I rimedi internazionali non possono che essere considerati complementari.

A 75 anni dalla Dichiarazione universale, sono sempre gli Stati a dovere dare per primi concreta attuazione al nobile principio sul quale poggia l’intera Dichiarazione: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti».

Gli Stati stessi devono assicurare che le persone nella loro giurisdizione godano dei diritti fondamentali. Ma che cosa succede se lo Stato non garantisce questa tutela? Il rimedio resta quello dei giudici nazionali. La storia mostra però che gli Stati sono piuttosto riluttanti ad adoperarsi per garantire questa tutela e che sono spesso essi stessi i responsabili diretti delle più gravi violazioni dei diritti dell’individuo

Edoardo Greppi

NP Gennaio 2023

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