Lo spazio dell’altro nella propria tradizione religiosa

Publié le 09-06-2016

de Andrea Gotico

L’intervento di mons. Lucio Sembrano del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso al convegno Lo spazio dell’altro nella propria tradizione religiosa, Napoli, Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale, 11 aprile 2016.

Dialogo è “lasciarsi attraversare dall’altro”. La prospettiva cristiana
Nella tradizione ebraico-cristiana, è evidente che Dio per primo da avvio al dialogo con l’uomo, muove i suoi passi verso di lui, per farne un annunciatore di pace: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annuncia la pace, messaggero di bene che annuncia la salvezza, che dice a Sion: “ Regna il tuo Dio” (Is 52,7). La pace è il dono dell’abbondanza che il Signore concede al giusto e alla sua discendenza (cfr Sal 37,11.37).

Nelle scritture ebraiche la parola shalom abbraccia i significati di “star bene”, benessere nel senso più ampio, fortuna, prosperità, salute fisica, contentezza, soddisfazione, evoca fecondità delle greggi e fertilità dei campi, è augurio di un rapporto pacifico e d’intesa fra popoli e persone, salvezza. Lo shalom va oltre la sfera puramente personale ed è orientato in senso sociale. Non è solo l’assenza della guerra, ma affermazione della signoria di Dio e dell’urgenza di accoglierla con fedeltà.

La radice della parola shalom connota completezza, integrità, armonia, totalità di un rapporto comunitario. Da ciò segue quell’orientamento alla pienezza di una relazione tra l’uomo, il cosmo e Dio, che è proprio del concetto ebraico di pace. Lo shalom non è, dunque, subordinato ad altri valori, o frutto di negoziati tra le nazioni, ma pur conservando un riferimento diretto alla realtà storica, è il termine ultimo in cui ogni progetto umano confluisce e trova totale realizzazione nel “Giorno del Signore” (yom YHWH), atteso per la fine dei tempi.
YHWH è lo shalom (Gdc 6,24), è “Principe della pace” (Is 9,5), e il popolo ne invoca la presenza. In modo particolare, i salmi cantano la pace come dono di Dio: “Egli annuncia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con fiducia” (Sal 84,9); “Il Signore benedirà il suo popolo con la pace” (Sal 29,11); “Chiedete pace per Gerusalemme: vivano sicuri quelli che ti amano; sia pace nelle tue mura, sicurezza nei tuoi palazzi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: “ Su te sia pace!”” (Sal 122,6-8). Dio potente, Padre per sempre, per il quale la pace non avrà mai fine (cfr Is 42,1-4): egli estenderà la giustizia tra le genti, dilatando la salvezza fino all’estremità della terra (cfr Is 49,6).
Su questa base teologica s’innesta la tradizione neotestamentaria che riconosce in Gesù di Nazareth il Messia (mashiach) unto dallo Spirito del Signore per portare il Vangelo di pace soprattutto ai poveri (cfr Is 61,1; Lc 4,19).
Per i cristiani la pace non è perciò un’ideologia, ma la premessa di ogni rapporto umano; non è soltanto un mezzo, una condizione, ma soprattutto un fine, già realizzato nella persona del Messia:

‟Egli (= Gesù Messia ) è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace e per riconciliare tutti i due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunciare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di Lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,14-18).

Nel Nuovo Testamento la pace è la persona di Gesù Cristo, come nel Primo Testamento, YHWH è la pace. L’epistolario paolino applica intenzionalmente a Cristo le formule di divinizzazione del culto del sovrano (salvatore, sotêr, e vincitore, epiphanes): Gesù Cristo è il Risorto, cioè il Re della pace e della giustizia e il vincitore della morte (cfr 2 Tm 1,9-10). La Pace è la salvezza che egli dona.
Gesù Cristo quindi è il mediatore del dia-logos, colui che riconcilia gli uomini con Dio e gli uomini tra di loro, il Messia annunciato dai profeti, che guida i nostri passi sulla via della pace (Lc 1,79), ed è inviato per donare la pace in terra a tutti gli uomini che Dio ama (Lc 2,14).

Le azioni di Gesù e il suo insegnamento sono segni che anticipano il regno di Dio e lo lasciano intravedere: “Il Regno di Dio infatti è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini. Diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione vicendevole” (Rm 14,17-19). I discepoli del Signore sono, dunque, operatori di pace e di dialogo. Vivere secondo il Vangelo comporta l’abolizione di ogni forma di separazione e discriminazione tra gli uomini, per edificare nella concordia la comunità:“Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9).

“Piacque a Dio riconciliare a sé tutte le cose, pacificando col sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (Col 1,19-20). Il Cristo ricostituisce la pace con il Creato e soprattutto riconcilia gli uomini in Dio avvicinando i lontani con il suo vangelo di pace e permettendo così che si compia il suo disegno di salvezza. La creazione così rinnovata, prima soggetta alla schiavitù della morte e della corruzione, conosce una nuova vita, mentre noi “aspettiamo nuovi cieli e una nuova terra, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (Cfr Rm 8,21; 2 Pt 3,13).

Queste considerazioni bibliche illuminano pure il rapporto tra l’agire umano e l’integrità del creato.
Lo spazio dell’altro non è solo una dimensione interiore, ma si situa nel tempo e in un luogo fisico. Si tratta di fare spazio all’altro! Il dialogo è, perciò, speranza e riconoscimento di un dono gratuito di Dio, non solo per i cristiani, ma per ogni uomo. Pensiamo ai migranti, ai profughi che si lasciano alle spalle un destino di miseria e di morte… all’irrisolta questione palestinese. Tempo e luogo non sono indifferenti per fare spazio all’altro.
Purtroppo, quando l’uomo si discosta dal disegno di Dio creatore, il disordine che provoca, si ripercuote inevitabilmente sul resto del creato. Se l’uomo non è in pace con Dio, la terra non è in pace (cfr Giovanni Paolo II, Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato, Messaggio per la Giornata mondiale della pace, 1 gennaio 1990, n. 5).

Lo spazio dell’altro nella Chiesa: il dialogo interreligioso.
“Il dovere [della Chiesa] è la diffusione, è l'offerta, è l'annuncio del patrimonio ricevuto da Cristo, ben lo sappiamo: Andate, dunque, istruite tutte le genti, è l'estremo mandato di Cristo ai suoi Apostoli. […]. La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio” (cfr Paolo VI, Ecclesiam suam n. 66-67).
Con queste parole, il 6 agosto 1964, si è intrapresa in via ufficiale, nella Chiesa cattolica, la strada del dialogo, compreso il dialogo con le religioni non cristiane. L’Ecclesiam suam usa il termine colloquium, che è sinonimo di diffusione, offerta, annuncio del Vangelo.

L’anno dopo, il 28 ottobre 1965, la Dichiarazione Nostra aetate definirà le relazioni con le religioni non cristiane in termini di “rispetto sincero, annuncio, dialogo (colloquium), collaborazione, testimonianza della fede e della vita cristiana” (Nostra aetate, n. 2 e.f) , e di “dialogo fraterno” (In riferimento agli ebrei, ivi n. 4e).

La Nostra aetate spiega bene che la ragion d’essere di queste relazioni è l’unità della famiglia umana, non solo in senso dia-logico, ma anche in senso teo-logico. Unità nell’origine, unità nel fine ultimo, e unità nella “riconciliazione” e nella salvezza realizzata nella storia da Gesù Cristo, unico Salvatore del genere umano.
Un disegno unitario di salvezza presiede dunque a tutta la storia dell’umanità e unisce gli uomini con legami che li spingono a vivere insieme il loro destino: ad mutuum consortium ducunt (Nostra aetate, n. 1a). Religioni e culture non sono estranee a questo disegno.

Spiegando la portata delle novità introdotte dalla Nostra aetate, il compianto Mons. Piero Rossano, già Segretario del PCDI, ne sottolineava il valore teologico e pratico (Cfr. P. Rossano, “Le cheminement du dialogue interreligieux de « Nostra Aetate » à nos jours, Bulletin 1990, pp. 130-142).
“Entrando nel lessico ecclesiastico, accanto ai consueti termini di “annuncio”, “insegnamento”, “catechesi”, “evangelizzazione”, “persuasione” e “testimonianza”, il dialogo denunciava un certo atteggiamento di disattenzione all’interlocutore e ai valori di cui egli è portatore, introducendo la categoria di “reciprocità”, del rapporto esistenziale “io-tu-noi”, e ravvivando l’idea che, quando si parla, si parla sempre con una persona concreta.
Da quel momento il dialogo si è imposto come uno stile nuovo nella missione evangelizzatrice della Chiesa, ma anche come espressione dell’esigenza di un “di più”, valido in sé, che si aggiungeva alla costellazione delle attività nascenti da quell’impulso interiore di carità che spinge la Chiesa ad andare incontro a tutti gli uomini.

Il dialogo ha introdotto nella coscienza e nella prassi ecclesiale un nuovo modo di considerare l’altro, facendo attenzione a ciò che egli ha in comune con noi. L’altro non è più un “oggetto di missione”, come lo consideravano ancora i trattati di missiologia (Così T. Ohm, osb, Machet zu Jüngern alle Völker. Theorie der Mission, Freiburg 1962 (trad. francese Faites des disciples de toutes les nations), un “lui” che mi è indifferente, ma un “tu” al quale mi rivolgo per formare un “noi” di comunione”.
Si è passati dall’astratto al concreto, dall’essenziale all’esistenziale, dall’astratta indifferenza al rapporto vivo e solidale. All’improvviso parvero obsoleti tutti i dibattiti teologici sui non cristiani che pullulavano nelle tesi de salute infidelium, de possibilitate rationali cognoscendi Deum, de vera religione, in cui le religioni non cristiane erano prese in considerazione solo per dimostrarne la falsità.

Su queste religioni la Dichiarazione Nostra aetate si esprimeva ormai in termini di simpatia, esistenziali e personalistici, sottolineando il comune fondo di umanità da cui procedono. “Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo. ... La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni… Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi” (cfr Nostra aetate, n. 1e - 2bc).

E’ impressionante la novità del linguaggio e delle prospettive evocate dal termine “dialogo”, che concentra l’attenzione su ciò che gli uomini hanno in comune, o ancora meglio, su ciò che essi sono in comune, e di conseguenza, su ciò che li spinge a “vivere insieme” (ad mutuum consortium) (Ivi, n. 1°), alla “globalizzazione della solidarietà”, come diremmo oggi a cinquant’anni di distanza.
L’introduzione del « dialogo » nella Chiesa ha avuto un effetto simile alla rottura di una diga, un nuovo inizio sulle macerie del mondo e della mentalità coloniale, con la fine dell’eurocentrismo. Per la missione della Chiesa nel mondo si spalancano nuovi orizzonti, soprattutto di fronte alle grandi religioni. Come scriveva il P. Jan Goetz, gesuita e professore alla PFTIM e in Gregoriana, “il Concilio ebbe il coraggio di emettere un giudizio positivo non solo sulla capacità dell’uomo di conoscere Dio – questo lo aveva già fatto il Vaticano I -, ma sull’esperienza religiosa e sulla risposta data dall’uomo a quest’esperienza nelle diverse società a noi note”. Questo giudizio riempiva i cuori di ottimismo e di fiducia, perché si riscopriva, nella tradizione della Chiesa, la presenza dello Spirito di dialogo fin dalle origini con una rinnovata attenzione all’homo religiosus, naturalmente predisposto alla ricerca di Dio. Sorsero così in Asia , in Europa, e negli altri continenti, gli incontri interreligiosi nel contesto del dialogo, della conoscenza reciproca e dell’amicizia.

Nel discorso di apertura del Sinodo sull’Evangelizzazione del 1974, Paolo VI disse che le religioni non cristiane non dovevano più essere considerate come concorrenti o come ostacoli all’evangelizzazione, ma come zone di vivo e rispettoso interesse, nonché di un’amicizia futura e già cominciata. La missione compiva rapidamente il suo “aggiornamento”, spogliandosi della passata mentalità coloniale, di un certo pessimismo antropologico e del monoculturalismo. I non cristiani non erano ormai più “pagani, idolatri, infedeli”. La natura e il metodo della missione evangelizzatrice della Chiesa non potevano ormai più prescindere dal dialogo.

L’evoluzione del dialogo
Lo scopo del Dialogo – soleva dire Paolo VI – è “manifestare agli uomini l’amore di Cristo”. In questo senso, sia Paolo VI, che Giovanni Paolo II hanno compiuto gesti simbolici per esprimere il loro desiderio di riconciliazione e solidarietà tra gli uomini di religioni diverse (P. Rossano, ivi, p. 136).
Paolo VI restituì al Governo turco lo stendardo della flotta musulmana conquistata dai cristiani alla battaglia di Lepanto e iniziò a ricevere in via ufficiale, e con grande cordialità, rappresentanti di religioni non cristiane. Si avvicendarono presso di lui il Dalai Lama, i patriarchi buddisti della Tailandia e del Laos, i responsabili delle organizzazioni religiose del Giappone, personalità religiose del Sikhismo e del giainismo, e del taoismo, e ovviamente tanti rappresentanti di organizzazioni musulmane ed ebraiche.

Col suo straordinario carisma, san Giovanni Paolo II ha confermato il cammino del dialogo. Il discorso ai giovani musulmani a Casablanca (19 agosto 1985), la visita alla sinagoga di Roma (13 aprile 1986), ma soprattutto la giornata di Assisi (27 ottobre 1986) hanno colpito il mondo dei cristiani e dei non cristiani. Nel 2002, dopo i drammatici avvenimenti di New York e Washington dell’11 settembre 2001 e le loro tragiche conseguenze nel Medio e Vicino Oriente, propose un Decalogo per la pace ai Capi di Stato e ai Rappresentanti dei Governi di tutto il mondo. Giovanni Paolo II sviluppò la “cultura del dialogo” e ha introdotto il dialogo interreligioso nella coscienza dell’umanità, come risposta al disegno di unità di Dio sulla famiglia umana. Benedetto XVI ha proposto il “dialogo della carità nella verità”, che nel processo di globalizzazione mondiale trova un’occasione propizia per promuovere relazioni di universale fraternità tra gli uomini, ed ha affermato che la libertà religiosa è un diritto sacro e inalienabile. Convinto che negare o limitare in maniera arbitraria la libertà religiosa significhi coltivare una visione riduttiva della persona umana e rendere impossibile l’affermazione di una pace autentica e duratura di tutta la famiglia umana (Messaggio per la Giornata Mondiale per la Pace, 1° Gennaio 2011, n.1.4.), Benedetto XVI non ha perso occasione per sostenerla.

Fin dall’inizio del Pontificato, egli ebbe a dire che “la Chiesa vuole continuare a costruire ponti di amicizia con i seguaci di tutte le religioni, al fine di ricercare il bene autentico di ogni persona e della società nel suo insieme” (Ai Delegati delle altre religioni, 25 aprile 2005). E poi, nella Verbum Domini (30 settembre 2010): “La Chiesa riconosce come parte essenziale dell’annuncio della Parola l’incontro, il dialogo e la collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà, in particolare con le persone appartenenti alle diverse tradizioni religiose dell’umanità, evitando forme di sincretismo e di relativismo e seguendo le linee indicate dalla Dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra aetate, sviluppate dal Magistero successivo dei Sommi Pontefici” (n. 117). Nel cammino del dialogo, è Cristo stesso che ci garantisce la libertà e la sicurezza che ci sono necessarie: «Non siamo noi a possedere la verità, ma è essa a possedere noi: Cristo, che è la Verità, ci ha presi per mano, e sulla via della nostra ricerca appassionata di conoscenza sappiamo che la sua mano ci tiene saldamente. L’essere interiormente sostenuti dalla mano di Cristo ci rende liberi e al tempo stesso sicuri. Liberi: se siamo sostenuti da Lui, possiamo entrare in qualsiasi dialogo apertamente e senza paura. Sicuri, perché Egli non ci lascia, se non siamo noi stessi a staccarci da Lui. Uniti a Lui, siamo nella luce della verità» (Presentazione degli auguri natalizi della Curia romana, 21 dicembre 2012).

Lo spazio dell’altro oggi: Papa Francesco è un frutto del Concilio!
Papa Francesco è testimone eloquente che il “dialogo è incontro e amicizia”. Rivolgendosi all’inizio del Suo Pontificato ai Rappresentanti delle chiese e delle comunità ecclesiali e di altre religioni, egli ha ricordato e ripetuto che “La Chiesa cattolica è consapevole dell’importanza che ha la promozione dell’amicizia e del rispetto tra uomini e donne di diverse tradizioni religiose – e questo voglio ripeterlo: promozione dell’amicizia e del rispetto tra uomini e donne di diverse tradizioni religiose” (Ai Rappresentanti delle chiese e delle comunità ecclesiali e di altre religioni, 20 marzo 2013).

San Giovanni Paolo II, commentando l’evento di Assisi, spiega come il dialogo sia divenuto ineludibile: “L'incontro del 27 ottobre […] ad Assisi, la città di san Francesco, per pregare ed impegnarci per la pace - ognuno in fedeltà alla propria professione religiosa - ha rivelato a tutti fino a che punto la pace e, quale sua necessaria condizione, lo sviluppo di «tutto l'uomo e di tutti gli uomini» siano una questione anche religiosa, e come la piena attuazione dell'una e dell'altro dipenda dalla fedeltà alla nostra vocazione di uomini e di donne credenti. Perché dipende, innanzitutto, da Dio”. (San Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, n° 47). Non diversamente suona l’appello per la salvaguardia della casa comune, lanciato da papa Francesco a tutti i credenti e agli altri uomini di buona volontà (Papa Francesco, Laudato si’, n. 62).

Tenendo ben fermo il timone del dialogo interreligioso, i Pontefici hanno saputo mantenere viva la tensione tra l’accoglienza e l’offerta, tra l’ascolto e l’annuncio, tra l’affermazione della propria identità e il rispetto dell’alterità, ma soprattutto hanno saputo invitare i cattolici ad unirsi ai non cristiani per “cooperare senza violenza e senza pregiudizi alla costruzione del mondo in una pace autentica” secondo le indicazioni conciliari (cfr Gaudium et Spes, n. 92e; Nostra aetate, n. 3b).

Da questo impulso e dagli orientamenti del magistero pontificio hanno tratto vantaggio gli Episcopati cattolici e le giovani Chiese dell’America, dell’Asia e dell’Africa - e pure le comunità cristiane che aderiscono al Consiglio Ecumenico delle Chiese, che ha condiviso con la Chiesa cattolica un’importante pubblicazione su “La testimonianza cristiana in un mondo multi-religioso. Regole di condotta” (www.worldevangelicals.org).

Il cammino è ancora lungo. Tuttavia, la Chiesa sa che un giorno i seguaci di tutte le religioni conquisteranno la meta definitiva per essere “un cuor solo e un’anima sola” (At 4,32) adorando Dio “in spirito e verità” (Gv 4,23) e opera con la fiducia nel seme del regno che germoglia e cresce (cfr Mc 4,27).

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