«Pace» sui Monti Nuba

Publié le 29-09-2011

de Redazione Sermig

Sudan: all’ormai ventennale guerra civile – che vede opporsi il governo di Khartoum ai ribelli dell’SPLA – si è aggiunta la gravissima emergenza umanitaria e politica del Darfur. Quali sono le radici di un conflitto che pare senza fine?

...di Renato Kizito Sesana
La guerra civile del Sudan è entrata in una nuova fase, quella della pace non firmata, o della pace firmata e non praticata.
Da quasi un anno, continuano a dirci che la firma dell’accordo di pace tra Khartoum e i ribelli del Sud, rappresentati dall’SPLA (Sudan People Liberation Army), sta per essere firmata. Lo scorso maggio si è fatto gran rumore intorno alla firma del «protocollo d’intesa» che stabilisce i principi generali dell’accordo dettagliato che avrebbe dovuto essere firmato entro la fine di agosto. Ma la fine di agosto è passata e la firma non è ancora stata fatta.
 È chiaro d’altra parte che sarebbe moralmente ipocrita e politicamente poco intelligente firmare un accordo di pace mentre in Darfur imperversa una crisi umanitaria che è stata creata e alimentata proprio dalle due parti in causa.
Ma c’è di peggio. Informazioni confidenziali mi fanno credere che ci siano all’interno dell’SPLA come all’interno del governo di Khartoum importanti fazioni che – senza voler apertamente sfidare gli americani che vogliono a tutti costi la pace in Sudan – hanno già in programma di provocare altri scontri in altre parti del Paese se si dovesse arrivare a pacificare il Darfur.

Da cosa nasce questo interesse a mantenere viva la guerra?
La ragione principale è la consapevolezza da parte di leader importanti di entrambe le parti che in caso di elezioni veramente libere difficilmente otterrebbero il voto di coloro che oggi pretendono di rappresentare. La guerra crea un potere, anche economico, che non deve essere giustificato se non con le armi. Senza la guerra questi leader perderebbero potere e ricchezza.
Ci sono altri fattori esterni che già hanno minato il processo di pace e che rischiano di esercitare influenze negative nell’immediato futuro. Possiamo nominarne alcuni.

Mentre tutti siamo consapevoli del pericolo posto da una minoranza fanatica e fondamentalista del mondo islamico, pochi si rendono conto del crescente potere del fondamentalismo cristiano, presente soprattutto nelle chiese pentecostali americane. Questa «destra cristiana», caratterizzata da un atteggiamento visceralmente e ciecamente anti-islamico, ha negli anni recenti scatenato una campagna mediatica contro il governo di Khartoum. Se questo ha avuto il merito di mantenere vivo il problema sudanese nell’opinione pubblica americana, ha però fatto percepire la guerra sudanese come una guerra di religione – che è una grave distorsione della realtà – ed ha estremizzato le posizioni, minando la possibilità di una futura coesistenza.

Un secondo fattore, scontato, inevitabile, ma che deve pur essere nominato, è la corsa al petrolio. In un’economia mondiale che va in crisi ogni volta che il prezzo di un barile di petrolio si alza di pochi dollari, non è trascurabile che, secondo analisti seri, entro cinque anni un quarto del petrolio prodotto nel mondo (escludendo la regione del Golfo) proverrà dall’Africa. Tutti sanno che nella zona tutt’intorno al Darfur c’è petrolio in abbondanza (Ciad, Libia e Sud Sudan). È inevitabile domandarsi se per caso non ce ne sia anche sotto il Darfur e che alcuni lo sappiano per certo. Se così fosse, ci si spiegherebbe come mai tante (veramente tante) armi abbiano trovato la strada del Darfur e perché il governo di Khartoum abbia scatenato une repressione così spietata. La tragedia del Darfur avrebbe quindi un’altra ragione oltre a quella di servire gli interessi di chi, petrolio o no, non vuole la pace.

Infine, di un altro fattore si è incominciato a parlare qualche anno fa, subito dopo il genocidio in Rwanda e la presa del potere in Zaire di Kabila senior, ed è la corsa fra Usa e Francia per il predominio politico e commerciale su vaste zone dell’Africa. La Francia ne è uscita sconfitta, con una seria perdita di influenza commerciale e politica nella regione dei Grandi Laghi e anche in Madagascar, dove ha preso il potere un presidente filoamericano. Ma la corsa è ripresa.

Alcuni fatti. Il governo francese ha firmato in luglio un accordo con l’Algeria che prevede fornitura di armi e il trasferimento di tecnologie a uso militare, e la collaborazione fra i servizi segreti dei due Paesi. La Francia negli anni recenti ha politicamente difeso Paesi come il Gabon, il Congo Brazzaville e l’Angola. Nessuno di questi Paesi ha un governo che abbia qualche parvenza di democrazia, ma hanno in comune il fatto di produrre petrolio. Le connivenze sono così solide che per proteggere il cittadino francese Pierre Falcone, notorio commerciante di armi vicino a personalità del governo francese, l’Angola ha accettato di nominarlo suo rappresentante all’Unesco, garantendogli cosi l’immunità diplomatica.

Dal canto loro gli Usa non stanno a guardare. Nel 2002 il segretario di stato Colin Powell visitò Angola e Gabon, la prima visita a questi Paesi da parte di un così alto rappresentante del governo americano. Lo scorso anno Bush visitò Senegal, Nigeria, Botswana, Uganda e Sudafrica. In marzo di quest’anno il generale Charles F. Wald, vicecomandante della base militare americana a Stoccarda, ha visitato, fra gli altri, Angola, Gabon, Nigeria, Tunisia, Algeria, Ghana e Sudafrica, ed ha poi commentato: «Ovunque ho parlato di guerra contro il terrorismo ho trovato che il pericolo posto dagli estremisti ai governi democraticamente eletti è capito da tutti». Il problema è che fra i Paesi che Wald ha visitato, solo il Sudafrica potrebbe passare a pieni voti a un serio esame dei criteri che caratterizzano un Paese democratico, Nigeria e Ghana potrebbero magari ottenere la sufficienza, ma gli altri sarebbero sicuramente bocciati. Sono considerati amici e quindi, naturalmente, democratici solo perché hanno risorse minerarie ed economiche utili per gli Usa.
E Usa e Francia non sono i soli Paesi in competizione per la conquista delle risorse e dei mercati africani. È incominciata la seconda «corsa all’Africa»?

Purtroppo, mentre scrivo, la situazione in Darfur non si risolve. Migliaia di persone sono già perite vittime della violenza e della carestia generata dalla violenza. Oltre un milione di disperati per sfuggire alle razzie dei janjaweed hanno dovuto lasciare le loro case e il loro bestiame e sono diventati rifugiati o sfollati. Sono storie e immagini che attirano – almeno per qualche settimana – i media occidentali. I quali si guardano bene dal raccontare le radici del conflitto.

Ma il Sudan non richiama solo una litania di fatti tragici e di prospettive negative. Ci sono anche le piccole – o grandissime? – cose che ti aprono il cuore. Uno degli ultimi giorni dello scorso giugno, per esempio, sulla pista di atterraggio recentemente rinnovata di Kauda – dove i segni del bombardamento di cui fui involontario testimone nel 2001 sono ormai cancellati (l’aviazione governativa sudanese bombardò la pista sui Monti Nuba, l’unica allora in mano all’SPLA – n.d.r.) – prendevo in braccio Amani (“pace” in kiswahili) una bimba di sette mesi appena arrivata dal Kenya. Amani è figlia di Ernesto Kutti, un ragazzo nuba che l’associazione Amani ha fatto studiare in Kenya, e di Jane, una maestra d’asilo keniana. Ernesto era venuto a Nairobi nel ’99, e stava rientrando sui suoi monti con una laurea in scienze sociali dell’Università Cattolica dell’East Africa, la moglie e la piccola Amani. Il prossimo anno Ernesto sarà responsabile della Koinonia Primary School di Kerker, poi, magari, una volta ben reintegrato, potrà prendere altre responsabilità. Appena scesa dall’aereo, Amani ha sentito la mamma sussurrarle all’orecchio: «Qui sei a casa, ti vorranno tutti bene». C’è una sapienza, e un amore, nella gente che sfida tutti i pessimismi, e fa dimenticare il generale Wald e le sue armi. Come dice l’Ecclesiaste (Qo 9,18): «La sapienza è più forte delle armi di guerra»

Foto: Gian Marco Elia

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