Non pace in SUDAN/2

Publié le 31-08-2009

de Lucio Sembrano


Difficile conoscere cosa accade nelle guerre d’Africa, se ne parla poco e le ragioni sono complesse, difficili da decifrare. L’intervista al cardinal Wako ci ha introdotto alla realtà del Sudan, proseguiamo il viaggio…

...di Lucio Sembrano

Dal 2001 il Presidente sudanese Bashir e il Colonnello Garang, capo dello SPLA/SPLM si incontrano a Nairobi grazie ai buoni uffici di un mediatore kenyota, il Generale in pensione Lazaro Sumbeiywo, che ha ottenuto i primi risultati concreti con i Protocolli di Machakos, in Kenya, nel luglio 2002.
Anche se non mancano i punti di disaccordo, come sull'istituzione di un'amministrazione separata per il Sud, i negoziati proseguono, a dispetto delle ripetute violazioni del cessate il fuoco, che avvengono da entrambe le parti, soprattutto nelle zone ricche di petrolio.
 A Naivasha, in Kenya, John Garang, capo dello SPLA, e Ali Osman Taha, vice-Presidente sudanese, hanno firmato un ulteriore capitolo degli accordi di pace, concordando la ripartizione degli utili dei bacini petroliferi tra nord e sud. Gli ultimi Protocolli firmati sono del 27 maggio 2004. I vari capitoli vengono affrontati pragmaticamente, l’uno dopo l’altro. Come ha commentato John Prendergast, uno specialista dell'International Crisis Group (ICG) – un osservatorio politico con sede a Bruxelles, le cui analisi sono molto attendibili – “il problema non è tanto negoziare l'accordo, quanto attuarlo”.

Con la fine delle ostilità nella regione meridionale del Paese, si sono aperti altri fronti di guerra, sia perché non è pensabile riconvertire a professioni di pace i mercenari al soldo del Governo di Khartoum, i cosiddetti “janjaweed”, miliziani a cavallo che seminano il panico tra le popolazioni inermi, incendiando i loro villaggi, uccidendo donne, bambini e bestiame, o costringendoli alla fuga, sia perché le trattative in corso tra Bashir e Garang escludono di fatto le altre aree geografiche.

Quello che accade nel Darfur, al confine con il Ciad, lungo una frontiera di 800 km, ove sono attivi lo SLA (Sudan Liberation Army) e il JEM (Justice and Equality Movement), è probabile che sia solo l’inizio di una serie di altre emergenze... Altri movimenti operanti altrove nelle sei regioni del Sudan potrebbero seguire il loro esempio per ottenere il riconoscimento dei diritti di una popolazione pari all’80% del totale, che vive fuori delle aree controllate dal Nord e dal Sud. Si vocifera che, nella regione orientale lungo il Mar Rosso, l’etnia Beja è già in subbuglio, pronta a scendere sul piede di guerra, offrendo ai Janjaweed un nuovo alibi per non deporre le armi, in una spirale che non sembra aver mai fine.
Purtroppo, l’unica risposta finora ottenuta è stata quella di bombardamenti sistematici dell’aviazione di Khartoum sui villaggi del Darfur, che hanno costretto già un milione di persone a cercare riparo oltre la frontiera con il Ciad. Si sospetta l’uso di armi chimiche da parte dell’aviazione sudanese. Ne sarebbe prova la ritardata decomposizione dei cadaveri delle vittime.

Senza il coinvolgimento di tutti i soggetti coinvolti nel conflitto, non si avrà una pace durevole e la guerra continuerà a martoriare il Paese.
Accanto all’intervento umanitario in Darfur e in Ciad, si profila con chiarezza la necessità di una decisione politica, se si vuole evitare che il caso Darfur 2004 venga accostato al caso Rwanda 1994 come vergogna della comunità internazionale. In effetti, il 9 settembre Colin Powell ha già parlato di un nuovo genocidio. Questa tesi non è da condividere, perché la violenza non mira all’estinzione di un’etnia in particolare, ma costringe alla fuga indiscriminatamente tutte le popolazioni della regione. Ciò non toglie nulla all’eccezionale gravità dell’emergenza umanitaria e politica in corso.
In conclusione, si può dire che: l’accordo tra Nord e Sud è solo un primo passo verso la pace. Per essere efficace, esso deve comprendere e soddisfare tutta la popolazione sudanese.
I vescovi sudanesi svolgono un lodevole servizio verso tutti senza distinzione. Il loro ultimo comunicato, col quale denunciano la pulizia etnica in corso nel Darfur, è del 25 agosto scorso. Tuttavia vengono totalmente ignorati dal Governo. Scettici sull’esito degli attuali negoziati, per il mancato coinvolgimento nel processo di pace di tutte le forze coinvolte nel conflitto bellico, essi non rinunciano a chiedere di essere coinvolti nelle decisioni politiche.

Infine, è sorprendente che
– malgrado i ripetuti appelli, le Risoluzioni e le minacce di sanzioni da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – il Governo continui a tollerare le scorribande dei Janjaweed. Pur se non li avessero armati direttamente, le autorità di Khartoum non possono esimersi comunque dalla responsabilità di non fermare le violenze in territorio sudanese.

Si spera che un contingente più cospicuo dell’Unione africana
(ora vi sono solo 300 soldati) possa intervenire a disarmare i civili, che sono in possesso di enormi quantità di armi, forse portate anche dal sud grazie al sostegno che lo SLA riceve dallo SPLA di Garang.

foto SIR
Giovanipace.org






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