Ernesto Olivero ricorda Dom Luciano Mendes

Publié le 15-02-2012

de Redazione Sermig

Ho scelto dai miei ricordi tre passi salienti dell’intrecciarsi della vita di Dom Luciano e mia, di amici brasiliani e del Sermig. Da vent’anni dom Luciano è per me, ma posso dire per ognuno del Sermig, dai più vecchi ai più giovani, l’amico prezioso, il fratello, il padre, il pastore, il modello di vita cristiana cui ispirarsi. La sua testimonianza di amore a Dio e ai fratelli è impressa in ogni piega della nostra esistenza personale e di fraternità, nelle vicende delle nostre famiglie come nei progetti di sviluppo nei Paesi più poveri del mondo.

Non c’è decisione che non abbia preso interpellandolo al telefono, in Italia o in qualche parte del Brasile, e in questo ultimo mese in cui forzatamente non potevo più parlargli e lui non poteva rispondermi mi sono ritrovato spesso a dire tra me e me: “Dom Luciano direbbe così, Dom Luciano farebbe così”. Una sintonia, una comunione, un legame che non si è spezzato domenica 27 agosto, un legame che continua più saldo nella fede.

Quando dovevo parlare di Dom Luciano ai giovani, sempre affascinati da Francesco d’Assisi, a volte dicevo che avevo conosciuto un uomo talmente buono da sembrare irreale, un Francesco moderno. Non esageravo, non era una battuta, ne sono davvero convinto e non sono il solo a pensarla così.

Dom Luciano è un uomo che sta bene in ogni pagina del Vangelo, un cristiano mite e forte, puro e cristallino, che sa ascoltare ma che sa anche parlare, che sa essere tenue ma anche inflessibile, un cristiano buono come il pane ma con un’intelligenza da grande statista. È un cristiano da 24 ore su 24, un cristiano numero uno che stava tranquillamente all’ultimo posto, un cristiano che ha avuto tanto potere ma che l’ha usato esclusivamente per servizio e non ci ha guadagnato una lira.

Chiunque l’ha conosciuto nella sua quotidianità sa che in lui bontà, mitezza, capacità di perdono, amore verso i poveri, attenzione alla persona si coniugavano con un’intelligenza finissima, con la capacità di vedere i problemi nella loro complessità e universalità, con una cultura non comune e la curiosità verso ogni espressione della vita, a 360°… Ed era questa completezza che sorprendeva, in un uomo dall’aspetto umile, dimesso nel vestire, capace di alzarsi per primo da tavola e servire i suoi ospiti, con semplicità e naturalezza.

Anche gli ultimi mesi di vita, le cure molto dolorose in ospedale, l’aggravarsi del male non l’hanno cambiato nell’intimo. Gianfranco della Fraternità della Speranza di San Paolo - che l’ha assistito nei due mesi di ospedale - mi ha scritto: “In questi giorni stando con don Luciano più da vicino e con più tempo ho visto la debolezza vinta da una grande forza! La debolezza è stata, forse per un momento, la vincitrice, perché sembrava che tutto fosse finito, la debolezza di un corpo stanco, “cansado”, di un corpo vinto da un “male”. Ma ancora una volta la grandezza di don Luciano ha vinto: ancora una volta gli altri sono più importanti, il grazie continua ad essere pronunciato da delle labbra “stanche” ma forti, il sorriso di un volto stanco che emana luce e speranza, la voce fievole che ti dice che siamo nelle mani di Dio in ogni momento… sia fatta la sua volontà, la preghiera è sempre per gli altri che soffrono… e così via … ancora una volta un esempio di vita! Grazie, caro Ernesto, per averlo incontrato e messo sul nostro cammino!”.

Ho incontrato Dom Luciano per l’ultima volta – ma speravo tanto che non fosse così, che guarisse, che tornasse tra noi… - il 3 agosto. È stato uno degli ultimi giorni in cui ha potuto comunicare con noi e mi ha accolto con la sua tenerezza di sempre. Siamo stati cinque ore insieme nella stanzetta dell’ospedale. Cinque ore in cui ai silenzi si sono alternati consigli, preoccupazioni, condivisioni.

Conservo come un tesoro prezioso le sue ultime parole: “Sono nelle mani di Dio Buono e Padre. Lo sento molto vicino. È un momento di gioioso abbandono. Tutta la mia vita è sempre in completa fiducia a Dio e alla Madonna. Ma in questi giorni mi unisco ancora di più al Signore. Offro tutto per la Chiesa, con amore e con fede. È l’ora della fiducia… Ernesto, ringrazia tutti i tuoi amici: Sono molto contento. Sono nelle mani di Dio. Quello che Dio vuole, voglio io. Sono stanco ma mi affido a Dio e offro tutto per il Papa che amo molto e prego per Lui. Grazie di tutta la preghiera tua e del Sermig. Dio ci conservi sempre così”.

Prima di ripartire gli ho chiesto una parola per i giovani dell’Arsenale, la cosa più bella da dire a tutti loro; ha risposto con un filo di voce: “La cosa più bella è consacrarsi al Signore”.

Ernesto Olivero

IL PADRE PICCOLO

Alla fine dei tempi, quando ognuno di noi sarà giudicato, credo che prima di pesare il bene ed il male delle nostre azioni Dio ci proietterà il film della nostra vita, con il titolo "Le occasioni perdute". Spero di non aver perso molte occasioni nella mia vita; mi piacerebbe davvero dire di non averne persa nessuna. Penso a cosa sarebbe stata la mia vita se non avessi conosciuto dom Luciano Mendes de Almeida, vescovo brasiliano gesuita: eppure avevo già una vita movimentata!

Era il gennaio del 1988.
Alla stazione di Porta Nuova aspettavo, proveniente da Milano, il presidente della Conferenza Episcopale del Brasile. Nella mia immaginazione doveva trattarsi di un grande prelato facilmente riconoscibile. Non lo trovai e dovetti ritornare una seconda volta. Nemmeno questa volta lo trovai.
Attesi all'Arsenale. Arrivò una seconda telefonata che mi diceva: "Sono qui ad aspettare, e non arriva nessuno". Con più calma mi diede un punto di riferimento e ripartii. Trovai un umile prete dimessamente vestito: ecco perché non lo avevo riconosciuto prima.

Lo avevamo invitato perché ci parlasse del Brasile. Volevamo conoscere dalla sua voce le tragedie e le speranze di questo popolo.
Dom Luciano invece ci parlò del Libano. Arrivava da lì, dove era stato mandato per una missione religiosa svolta presso tutti i Capi spirituali di quella terra martoriata (allora faceva parte della segreteria del Sinodo dei Vescovi).
Mi guardò in faccia mentre parlava delle violenze e delle distruzioni viste, e mi disse: "Lei dovrebbe andare in Libano a portare un messaggio di pace".
Mi lasciai prendere da quella frase e dissi: "Sì, se Dio vuole".

Pochi giorni dopo a Roma mi fece conoscere il Patriarca maronita. Il Patriarca accettò il suggerimento di dom Luciano e mi invitò ufficialmente in Libano a parlare ai giovani dell' aspirazione alla pace. In pochissimi giorni ottenni il visto e partii.

La decisione era presa. Da allora l'aereo è stata quasi la mia casa; in questi anni sono salito su più di 500 aerei. Aerei enormi, piccoli come un’utilitaria, elicotteri civili, elicotteri militari in zone di guerra. Grazie a questi mezzi, abbiamo fatto carità non previste e abbiamo raggiunto Paesi in piena guerra (Libano, Somalia, Iraq, Rwanda).

Tutto questo perché un uomo di Dio è entrato nella nostra vita, nella nostra casa, nel nostro cuore; un uomo dal quale Dio traspare in ogni piccolo gesto, in ogni atteggiamento, in ogni situazione. Un uomo così ti imbarazza perché ha cancellato dal suo vocabolario le parole "Non ho tempo", "Sono stanco". È disponibile, indifeso, sembra sempre di forzarlo.
In tempi di "grandi furbi e di grandi furberie", è difficile trovare uno spirito tanto ricco di umiltà, purezza e libertà, doti che - la storia mi insegna -, aveva in somma misura Francesco d'Assisi.
Dicendo che è un uomo buono, credo di aver già detto tutto. A dom Luciano puoi telefonare a qualsiasi ora del giorno e della notte e senza filtri, perché ti risponderà sempre lui, dandoti ascolto.

A San Paolo del Brasile molti dicono che i primi a sapere dell'arrivo di dom Luciano in città, sono i poveri; loro osano fermarlo, parlargli, chiedere qualunque cosa a quella che è la massima autorità ecclesiale in Brasile.
Dom Luciano proviene da una delle più importanti famiglie brasiliane, parla bene sei lingue; è un uomo di profonda e vasta cultura, ma è anzitutto un uomo di Dio, un uomo semplice e libero. E se gli capita di incontrare un povero, magari mentre sta per avere un incontro con un capo di Stato o per partecipare ad un convegno importante, si ferma, come l'ho visto fare, dimentico del tempo. Perché per lui il tempo si arresta quando incontra gli ultimi di questa terra.

In un viaggio in Brasile, Sandro e Andrea, i miei figli, mi hanno accompagnato. Andrea era alla caccia di magliette che oso definire "terrificanti". Quando dom Luciano l'ha saputo, ha perso alcune ore della sua giornata per accompagnarlo in un negozio specializzato e per scegliere pazientemente le magliette per lui e i suoi amici.
Perdutamente invaso da un amore totale per il Cristo, è un "uomo senza difese", ma che dinanzi ai poveri da difendere parla e grida anche quando è in silenzio.

Lo diresti retorico se lo vedi alzarsi e dare una mano a sparecchiare la tavola al termine di un incontro conviviale tra amici, oppure aiutare un vecchio a portare le valigie sulla pista di un aeroporto. Ma poi ti accorgi che lui è così e il sospetto di retorica lascia luogo alla meraviglia dinanzi ad un tale personaggio, ad un "cristiano qualunque" innamorato della preghiera, che all'improvviso sa chiudersi in sé, breviario in mano e bisbiglio di preghiera sulle labbra.

È stato tra i pochi vescovi presenti al funerale di Oscar Romero, martire del nostro secolo, ucciso perché predicava e viveva il Vangelo e questo disturbava. In quella domenica delle Palme, dom Luciano era lì quando le bombe hanno cominciato a mietere vittime indiscriminatamente e le sue orecchie hanno udito l'urlo della povera gente che lo aveva riconosciuto: "Padre piccolo, ci assolva perché la morte è vicina!".
In quell' inferno durato ore e ore, lui pregava in mezzo alla folla. Lui stesso raccolse i morti nella piazza per comporli in chiesa e benedirli. Non ebbe paura di mettere per scritto tutto quello che aveva visto; naturalmente la sua versione non fu quella ufficiale.

Quando tutto fu concluso era ormai l'una di notte. Così attraverso mille peripezie il "padre piccolo" fu portato al sicuro all'ambasciata brasiliana. Lì si ricordò che la messa era stata interrotta per le bombe, mentre il sangue incominciava a scorrere e tutto veniva travolto dalla folla: l'altare, il calice con il vino consacrato... Il "padre piccolo" decise di riprendere la messa per continuarla e portarla al termine.

Il mattino dopo, e nel ricordo i suoi occhi si intristiscono ancora di più, l'autista dell'ambasciata, tornando a casa dopo averlo accompagnato all'aeroporto - si era ormai in piena guerra civile - venne sfigurato in un modo orribile da una grossa pietra scagliata da un ponte per colpire la sua macchina.

A volte oso fare questo paragone, quando lo devo presentare in ambienti dove non lo conoscono: è buono come il pane - e scusate se è poco.
Ha la statura di un grande statista, le virtù di un grandissimo mediatore, la fibra di un grande combattente - in una settimana è capace di spostarsi continuamente in tutte le parti del mondo, dormendo solo poche ore.

L'ultima assemblea delle Conferenze Episcopali dell'America Latina a Santo Domingo lo ha visto protagonista nel tessere tutte le diverse opinioni per fonderle in una proposta unitaria.
In questo momento è uno dei più grandi testimoni di fede cristiana vivente.
Aver conosciuto dom Luciano, esserci intessuti spiritualmente in mezzo a delusioni, sofferenze e fatiche vissute insieme, è stato davvero uno dei doni più belli che il Signore ci ha fatto.

Da: Ernesto Olivero, “Dio non guarda l’orologio”, Ed.Mondadori 2004

DIO È BUONO

La sera del 24 febbraio 1989 sono intento a leggere nella mia stanza dell'Arsenale quando una telefonata di padre Aldo Lucchetta dal Brasile mi fa trasalire: “Ernesto, sto guardando il telegiornale e vedo che stanno trasportando dom Luciano in coma all'ospedale. Dicono che sta per morire. Ha avuto un incidente in macchina tra Belo Horizonte e Mariana. Padre Angelo che era con lui è morto”.

Padre Angelo, un caro amico, era il segretario di dom Luciano ed era andato a prenderlo alla stazione dei pullman di Belo Horizonte, dove arrivava da San Paolo. Qui il giorno prima aveva inaugurato il centro San Martino: una struttura di accoglienza per i “barboni” che anche noi avevamo contribuito a sistemare, ricavata in modo molto intelligente sotto un cavalcavia.

Sento profondamente che questo amico non può, non deve morire. Chiamo tutti gli amici presenti all'Arsenale e andiamo in chiesa. Ci mettiamo ai piedi della Madonna. Il silenzio e la preghiera ci prendono come non mai. Ritorno nella mia stanza. Cerco un uomo di Dio perché possa confermarmi se questa sensazione, che sento come dono del Signore, sia una illusione o una certezza. Quella notte non posso dormire. Dom Luciano è un amico: per un amico il sonno può sparire, per un amico le lacrime e la preghiera possono diventare cibo.

Il mattino successivo telefono a dom Mario Zanetta, vescovo novarese di Paolo Afonso e tra i promotori dell'Assindes Bahia, per chiedergli di contattare suor Carmen, che sono sicuro stia assistendo dom Luciano. Desidero che suor Carmen gli sussurri all'orecchio: “Ernesto dice che le cose si metteranno per il meglio”. Dom Zanetta mi conferma che dom Luciano è gravissimo e che sarà sottoposto a molte operazioni.

Nel pomeriggio dello stesso giorno mi arriva la telefonata di suor Carmen: dom Luciano aveva ricevuto e capito il messaggio. Proprio in quel momento stavo leggendo: “Come acqua fresca per una gola riarsa è una buona notizia da un paese lontano” (Proverbi 25,25).

La sera stessa dell'incidente, nella regione di Belem, dove dom Luciano è stato vescovo per molti anni, la notizia trasforma una grande celebrazione eucaristica con tutti i sacerdoti, il cardinale e una folla enorme di fedeli, in una grande accorata invocazione a Dio per la guarigione di dom Luciano.

Nella processione d'ingresso, un sacerdote porta la foto di dom Luciano e la pone ai piedi dell' altare. Un bambino di strada, affacciandosi all'ingresso della Chiesa, vede quella foto amica e facendosi strada tra la folla si avvicina, la circonda con un braccio come se dom Luciano fosse presente. Non piange, sorride. Chi assiste a quella scena dice con convinzione: "Dom Luciano non può morire, dom Luciano vivrà".
Televisioni e giornali sentono vibrare la stessa commozione e la comunicano. Anche giornalisti solitamente contrari alla Chiesa, parlano con emozione di quest'uomo che sta morendo, ma che la gente vuole che viva.

Il 14 marzo alle dieci di sera, accompagnato da don Aldo che mi faceva da guida, arrivo davanti alla porta della camera 520 dell'ospedale Felicio Rocho di Belo Horizonte. Elisa, sorella di dom Luciano, che sin dal primo momento ne è diventata l'angelo custode, mi fa entrare nella stanza. Lo trovo addormentato. Il viso è sofferente, ma non traspare angoscia. Preghiamo.

Elisa mi mostra i primi biglietti che dom Luciano era riuscito, nella fatica del dolore, a scrivere con la mano sinistra, anch'essa ridotta a pezzi, ma in modo meno disastrato della destra: «Deus è bom», “Dio è buono” (vedi foto in alto), il primo in assoluto; poi con grande commozione scopro il secondo biglietto: “Telefonare Ernesto. Avvisare.” e il terzo, quasi ad accertarsi che la comunicazione fosse giunta: “Telefonare Ernesto. Italia 0339-11-4368566”. È stata una delle consolazioni più intime e struggenti della mia vita. Il Signore accarezza, consola sempre in profondità. Poi dom Luciano si sveglia, apre gli occhi, mi vede: “Ernesto ... Ernesto”.

Il 28 maggio 1990 Maria, mia moglie, subisce un'operazione molto grave. Deve restare molti mesi all'ospedale. Dom Luciano, che dopo aver subito più di dieci operazioni, lentamente si sta riprendendo, con la scusa del viaggio in Vaticano che deve fare come presidente della Conferenza Episcopale Brasiliana, fa una ... deviazione e arriva a Torino. Viaggia in carrozzella, si tiene in piedi a malapena e riesce a spostarsi usando un girello. Viene per visitare Maria in ospedale.

Da: Ernesto Olivero, “Dio non guarda l’orologio”, Ed.Mondadori 2004

L’OTTAVA MERAVIGLIA DEL MONDO

C’era un odore nauseante, irrespirabile nel maggio del ’95, quando vidi, anzi “sentii”, per la prima volta la casa degli emigranti, nel centro di San Paolo in Brasile. Un complesso di 35 mila metri quadrati diviso in 19 “predios” (padiglionii – n.d.r.).

Solo da questa grande casa, denominata “Hospedaria dos Imigrantes”, sono passati 955.502 italiani, che hanno popolato questa grande città diventandone la comunità più numerosa. Vi erano ospitate mediamente 1.500 persone, in certi momenti arrivavano fino a 9.000 per giorno. Sbarcavano con le navi a Santos a una settantina di chilometri da San Paolo. Dopo la traversata dell’oceano, dal porto erano prelevati e dal treno portati direttamente a questa “hospedaria”.

Dom Luciano mi accompagnava “a vedere” la proposta del Governo dello Stato di San Paolo. Volevano affidarci questa casa del dolore, come era stata definita dalla tradizione popolare. Erano passati milioni e milioni di emigranti dall’Europa, dall’Asia. Non lo sapevano, ma molti venivano a prendere il posto lasciato dagli schiavi nella coltivazione dei campi.

Italia, Italia, quanti figli sono dovuti emigrare per trovare un pezzo di pane. Italiani, italiani, non dimentichiamocelo. Penso a questi dolori.
Ma questa casa ricorda anche immense tragedie, immani dolori: una antica riproduzione fotografica ne da un po’ la misura. Mi si é fermato il cuore quando i miei occhi hanno letto: “cercasi schiavo fuggito... il suo nome é Eduardo, età tra i 18 e 20 anni... grande ricompensa a chi lo riporta al suo padrone...”.
Tutto questo mi ha fatto riflettere ancora di più: accettare o non accettare, questo era il problema; dopo aver capito in che casa del dolore saremmo capitati, la responsabilità era ancora più grande.

Quello che avevamo fatto a Torino l’avremmo potuto fare anche a San Paolo: un letto arredato con materasso, coperte, lenzuola e cuscino, servizi igienici adeguati, strutture di supporto. E la ricostruzione: fognature inesistenti, impianti elettrici e idraulici completamente da rifare, le tubazioni del gas con notevoli perdite nel sottosuolo, l’impianto antincendio non funzionante, i tetti con grandi infiltrazioni di acqua, praticamente tutto da rivedere e molto da rifare.

Amici della fraternità pronti nell’accoglienza, nel dialogo: Alberto, Gianfranco, Lorenzo, Vasco con la sua famiglia e ora Simone. Altri amici di volta in volta si aggiungono per dare una mano. Abbiamo costituito una cooperativa con 65 amici brasiliani. La base erano gli amici della parrocchia di San Rafael, con i quali da alcuni anni ci incontravamo nella preghiera e con i quali avevamo condiviso alcuni progetti realizzati in Brasile. Con loro siamo partiti. Il vecchio odore, la vecchia puzza nauseante, ha lasciato posto alla speranza.

Da: Nuovo Progetto - febbraio 2006

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