Lory (Benin City)

Publié le 06-09-2016

de sandro


Mi chiamo Lory, ho 27 anni e sono nigeriana di Benin City.
La mia è una famiglia povera. Siamo 5 tra fratelli e sorelle, e io sono la più grande.


poi ancora a piedi. Non so dire quali e quanti Paesi ho attraversato prima di arrivare in Italia. Però quel viaggio ce l’ho stampato nella testa, nelle gambe, nei piedi: non ho mangiato per giorni interi, ho dormito nei boschi, sulla strada ma anche su camion che trasportavano merci, nascosta con l’uomo di cui ero diventata prigioniera. Ho avuto paura di morire, quell’uomo mi ha picchiata, mi ha violentata, mi ha sottratto i documenti. Mi teneva le mani legate con una corda perché non scappassi. Ho avuto tanta paura, ho avuto tanto freddo.

Una volta arrivati in Italia, a Torino, mi ha portato a casa di una donna e mi ha lasciato lì, con altre ragazze che erano appena arrivate. In questo appartamento ho assistito ad un via vai di donne nigeriane: entravano, prendevano una o due ragazze e poi se ne andavano. Poi è arrivato il mio turno: si è avvicinata una donna poco più grande di me e mi ha portato a casa sua. Mi aveva comprato, ma io ancora non lo capivo. Sembrava gentile, mi ha fatto lavare, mi ha dato da mangiare, mi ha detto di riposare e che il giorno dopo mi avrebbe accompagnato al lavoro.

Il giorno seguente mi ha dato dei vestiti da indossare per andare al lavoro: un costume da bagno e una gonna corta. “Fa freddo, è dicembre, non voglio quella roba così leggera”. Allora, da mettere sopra, mi ha dato un cappotto. Abbiamo preso l’autobus, siamo scese in una zona dove di case non ce n’erano e mi ha dato un pacchetto di preservativi. “Svegliati!!! sei venuta qui a fare la puttana, cosa credevi? Ho pagato 100 milioni per farti arrivare fin qui e ora me li devi restituire tutti e in breve tempo e l’unico modo per fare tanti soldi in poco tempo è questo qui. Se provi a scappare o a parlare con la polizia faccio uccidere i tuoi fratelli”.

Di giorno dormivo facendo i turni con le altre ragazze per potermi coricare su un materasso steso per terra. Nell’appartamento della “maman” eravamo in 10: in una stanza 8 ragazze, nell’altra lei con il suo uomo. I soldi che guadagnavo dovevo consegnarli tutti, ma non tutti venivano conteggiati per estinguere il debito. Una parte veniva tolta per l’affitto dell’appartamento in cui stavo, una parte per il cibo, una parte per pagare il joint (il posto sulla strada), che a sua volta la maman doveva pagare a chi stava “sopra” di lei.

Di notte lavoravo sulla strada; ho preso anche botte e insulti. In mezzo allo schifo, con la voglia di uccidere e la voglia di morire ho lavorato su quella maledetta strada, con il freddo nelle ossa e con la paura di chi incontravo. Ero lì, insieme a ragazze nigeriane e rumene, albanesi e moldave, maggiorenni e non (tanto a chi importa?!) che, come me, erano venute in Italia perché sognavano di essere felici.









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