Polentoni e macaronì

Publié le 31-08-2009

de andrea


Giuseppe Ferrulli, di Altamura (Bari), trent’anni passati in Germania. Un racconto di immigrazione del passato, che può far pensare al presente.

di Andrea Giacomelli


“Rapinatori italiani uccidono il cassiere”, “Inquietudine nel Bronx, basta con gli immigrati italiani”, “Navi cariche di italiani: impedire gli sbarchi”. Sono alcuni titoli apparsi sui giornali americani della prima metà del ’900 che invocavano misure straordinarie contro l’immigrazione che dall’Italia riversava nelle metropoli americane milioni di disperati nostrani, alla ricerca di pane e fortuna. Dal 1869 al 1875 lasciarono il nostro Paese una media annua di 123.000 emigranti, e dal 1876 al 1915 dai 550.000 ai 650 mila l’anno: 25 milioni di italiani (fonte: il passaporto.it). L’emigrazione salì di nuovo nel dopoguerra, poi ci furono le misure restrittive del governo USA sotto e allora l’emigrazione italiana si rivolse soprattutto verso Germania, Francia e Belgio. Le storie di emigrazione italiana sono dunque molte e diverse fra loro. Ve ne proponiamo una.


Zii d’America
Oggi la comunità italo-americana è entrata nelle classi alte degli Stati Uniti: fra loro, spiccano i nomi di politici, industriali e artisti famosi, ma nella prima metà del ’900 gli italiani erano ai livelli più bassi della società.

Giuseppe Ferrulli, di Altamura (Bari), negli anni ’50 lasciò l’Italia per cercare nuove opportunità di vita in Germania. Vi si fermerà trent’anni. Un racconto di immigrazione del passato, che può far pensare al presente.

Signor Ferrulli com'è iniziata la sua "avventura" tedesca?
Dobbiamo tornare alla seconda metà degli anni '50. La mia bottega di barbiere aveva in quel tempo i suoi clienti: fra i quali tanti giovani disoccupati. Diversamente dai miei coetanei, il lavoro per me non mancava. In bottega erano frequenti i discorsi sulle precarie prospettive di vita. Ricordo che gli amici vagliavano e ponderavano, al rumore delle forbici, gli annunci esposti all'ufficio del lavoro circa le richieste di manovalanza all'estero. In breve, rimasi anch'io coinvolto dalle speranze e dalle opportunità che alcuni anni di Germania avrebbero potuto dare alla mia giovane famiglia. Il mio viaggio in Germania iniziò quindi casualmente, coinvolto dalle notizie e speranze che giungevano alla mia bottega di barbiere. La progressiva partenza dei giovani di Altamura si ripercuoteva inoltre negativamente sulla mia attività. Fu così che fra necessità, entusiasmo giovanile e spirito di intraprendenza, mi ritrovai su un treno che, ero allora convinto, mi avrebbe sottratto solo temporaneamente dall'amata città natale.

Che cosa ricorda di quel viaggio?
Ricordo una destinazione e un lavoro scritti su un foglio di carta, ma per me sconosciuti: la città di Speyer e il lavoro di carpentiere nella costruzione di strade. Ricordo la scatola dei vestiti, trasformata da un pezzo di spago ben stretto in una borsa da viaggio contenente: maglione di lana fatto dalla mamma, spaghetti, vaso della salsa al pomodoro e gli attrezzi da barbiere. Quella scatola di cartone era per me molto più di una valigia: rappresentava la terra e gli affetti di casa.

Troppe valigie: un reato
Nella foto a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta un gruppo di emigranti in attesa di partire. Diceva un titolo del "Corriere della Sera" del 6-3-1971: "Per un italiano che approda in Svizzera è un reato anche portare troppe valigie".

Svizzera 1962: in 16 in una stanza
La stanza in cui nel 1962 vivevano alcuni immigrati italiani a Ginevra: misura 7 metri per 4 e vi sono sistemati 16 operai. Il padrone incassava, per una camera, l’equivalente di 1300 euro. Nella stessa stanza facevano anche da mangiare.

Come fu l'impatto con la Germania?
Gelido! Fu durissimo. Le mie mani erano abituate a curare testa e capelli e non certo al lavoro col piccone nella polvere. La vita nelle baracche e la distanza dagli affetti di casa mi portarono a raschiare il fondo delle mie risorse umane. Cercai così le strade per superare una situazione sicuramente diversa dai sogni e dalle speranze coltivate. Mi salvarono da quella situazione il pennello e le forbici portate dall'Italia. L'abilità di barbiere, esercitata per i capi e gli operai, mi guadagnarono la confidenza necessaria con quel datore di lavoro "straniero" e il denaro sufficiente per risolvere il contratto. Libertà significava allora la possibilità di cercare un altro lavoro. Entrai così in un'azienda grafica e la vita migliorò.
Come mai non ritornò in Italia?
La risposta è semplice: il sogno del ritorno, si è via via tradotto nell’accoglienza di ciò che offriva la vita in Germania e la sistemazione temporanea prendeva sempre più i tratti di una residenza. Nel frattempo mi raggiunse mia moglie e nacquero i nostri figli. Un processo che senza veri punti di svolta ha gradualmente, ma inesorabilmente, trasformato una trasferta di lavoro in emigrazione.
Qual era il suo ruolo nella comunità italiana?
Sono sempre stato attivo nella preoccupazione di migliorare l'esistenza degli italiani in Germania. La nostra azione era all'inizio quella di mantenere l'identità italiana, che era l'unica che avevamo. La comunità cattolica italiana era e rimane punto d'aggregazione e di riferimento non solo religioso, ma anche sociale e ricreativo degli italiani. Ricordo un episodio che testimonia le nostre convinzioni e l’orgoglio che ci animava allora in quella situazione di presunta temporanea immigrazione.
Con alcuni amici avevamo ingaggiato una "contesa" con l'amministrazione tedesca per avere anche una scuola in italiano per i nostri figli. Accadde così che quando le esigenti condizioni poste dalla burocrazia tedesca ci sembrava fossero state soddisfatte, ci presentammo con la documentazione necessaria all'ufficio di Francoforte. Là con sorpresa ci trovammo di fronte un'ennesima richiesta nel frattempo disposta: occorrevano altri due bambini per formare la classe! Non ci lasciammo tuttavia sopraffare da "quell'ultima" difficoltà. Sapevamo dove c'erano bambini... Fu così che alcuni "dei nostri" con un rapido viaggio Germania-Sicilia "reclutarono" gli scolari necessari.

Vietato l'ingresso agli italiani
Il divieto d'ingresso per gli italiani, scritto in italiano e in tedesco, affisso alla finestra di un club. Simili avvisi, in Germania e in Svizzera, erano frequentissimi.


Per le mutate condizioni sociali e d'inserimento delle nuove generazioni, la scuola cessò poi la sua attività alla fine degli anni '80. Ma prima d'allora aveva visto un crescendo di iscrizioni che avevano abbondantemente appagato lo sforzo iniziale dei promotori.

Andrea Giacomelli
da Nuovo Progetto agosto-settembre 2005

Fotografie sull’immigrazione italiana da: http://rizzoli.rcslibri.corriere.it/rizzoli/stella/home.htm

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