Una vita condivisa

Publié le 31-08-2009

de Elena Goisis


In un mondo caratterizzato dallo spirito di successo, in cui è valorizzata l’intelligenza umana nelle sue differenti realizzazioni (scienza, politica, cultura, economia, tecnologia), l’esperienza dell’Arca valorizza un’altra forma d’intelligenza di cui talvolta si sente crudelmente la mancanza, l’intelligenza del cuore. Intervista a Malek al Daoud (Arche de la Vallée)


... a cura di Elena Goisis

L'Arca è strutturata in Comunità ed in foyer…

Ogni Comunità è formata da più "foyer" di vita: luoghi in cui si abita insieme condividendo la vita e prendendo in carico le persone per l'igiene, le cure, i pasti, le visite mediche…
In ogni foyer ci sono sette/otto persone accolte e tre/quattro "assistenti di foyer". La parola "assistenti" significa "essere con" le persone nella loro vita quotidiana per cucinare, fare le pulizie, riordinare la loro camera…
Presso il centro della Comunità si svolgono invece ogni giorno, negli "atélier", due attività insieme agli "assistenti d'atélier": sportive (nuoto, equitazione), culturali (educazione musicale), pratiche (orticoltura)…
Le persone possono chiedere direttamente di essere accolte. Se vi è la possibilità, possono fare una settimana di prova, poi un mese di stage, prima di decidere con il responsabile se l'Arca è il loro posto.

Nella nostra società al primo posto c'è l'efficienza, mentre l'esperienza dell'Arca valorizza "l'intelligenza del cuore": di cosa si tratta?

Nel mondo il ritmo di vita è molto rapido e bisogna essere molto intelligenti mentalmente per avanzare. Ma si dimentica spesso l'intelligenza del cuore, cioè il comprendere i valori dell'essere umano, il valore di "esserci". Le persone che non hanno intelligenza "ci sono", hanno altre qualità. Nella vita dei foyer, molte cose ci toccano, come l'amore di queste persone: quando amano, amano sul serio; sono molto schiette nell'amicizia, non hanno maschere, non hanno secondi fini, amano nella gratuità. Si sperimenta il valore della vita condivisa e pur aiutandole dove fanno fatica, non viene chiesto loro in modo esigente di avanzare nelle capacità mentali, fisiche.

Quale pienezza di vita per queste persone?

Spesso hanno attraversato situazioni molto difficili, hanno molte ferite. Attraverso la vita condivisa si cerca di farle crescere nell'amore, nella gioia, con il tempo forse anche nella capacità fisiche, e tutto questo alla presenza di Dio. Il nostro obiettivo è costruire una relazione di amicizia che possa aiutarle a scoprire le proprie capacità: una delle persone con cui vivo, Anne, ha molta memoria ed ama molto parlare, un'altra, Claudette, canta molto bene, ed ama cucinare, scherzare…

Come conciliare una vita fondata sulla priorità delle relazioni con le tante cose da fare?

Non è facile. Spesso il nostro ritmo non conviene alle persone che vivono con noi: quando devo fare le pulizie con una persona accolta, ed essa ha bisogno di tempo perché non ha le mie capacità, lavoro al suo ritmo, per salvaguardare la condivisione. Se vado più veloce non rispetto la relazione, non rispetto il suo ritmo per "essere con".
Per trovare ogni giorno questo equilibrio ogni assistente deve salvaguardare una certa vita interiore, una relazione con Dio, poiché la vita spinge ad andare più veloci. Dio va al nostro ritmo, rispetta la nostra debolezza, rispetta la nostra fragilità. Noi possiamo fare la stessa cosa con le persone. Salvaguardando la relazione con Dio, scoprendo le nostre debolezze si possono rispettare le loro.

Tra queste debolezze c'è la paura dell'handicap mentale…

Quando i nuovi assistenti arrivano in Comunità, iniziano con una settimana di prova, poi fanno quattro settimane di stage. Poi con l'accordo della comunità possono essere presi, per due anni come volontari ed infine come stipendiati.
Così iniziano a scoprire l'handicap poco per volta, circondati dai responsabili della comunità e del foyer. Non avvicinano molto le persone accolte, non entrano nella loro intimità. Soprattutto la prima settimana devono guardare e scoprire, non hanno molti compiti. Nelle quattro settimane successive possono iniziare a fare qualcosa, come cucinare o far pulizie, con le persone accolte. Entrando con gradualità nella vita comune, si scopre che le persone accolte sono formidabili, piacevoli: sono loro che ci accolgono, con una grande intelligenza del cuore, senza maschere. Bisogna ricordarselo sempre. Questo aiuta molto il nuovo assistente ad entrare nella vita del foyer senza difficoltà, senza paura. Una giovane che ha fatto uno stage di due settimane alla fine mi ha detto che le era molto difficile ripartire! Quando le persone accolte sentono che viene qualcuno per uno stage sono molto felici e fanno tutto quello che possono per accoglierla, ad esempio preparando la camera, il letto…
Il foyer non è mio, è loro: io passo, loro restano e io devo rispettare la loro casa, decidere con loro la politica della casa. È la vita condivisa: "essere con" significa esserlo nelle decisioni, nella vita, nel lavoro. Nella preghiera capiamo se abbiamo rispettato questo stile e se non lo abbiamo fatto è necessario un atto di pentimento, di riconciliazione. Bisogna ricominciare ogni giorno.

Ci sono legami tra foyer e società esterna?

La società è molto importante, bisogna salvaguardare questo legame perché le persone che vivono nel foyer costruiscano delle relazioni quelle che vivono all'esterno, invitandole, andandole a trovare, cogliendo l'occasione della messa domenicale. Soprattutto si cerca di rispettare i legami già costruiti, si incoraggia la salvaguardia delle relazioni precedenti con le famiglie, i vicini, i negozi del villaggio.

Come fare perché la società diventi "comunità"?

Ci vuole tempo. Quando si va in giro con i portatori di handicap si incontrano persone completamente indifferenti e persone che fanno domande, che cercano di comprendere cos'è la vita condivisa, che cercano di fare qualcosa. Per i giovani è possibile fare degli stage all'interno dei foyer, è possibile scoprire la presenza di Dio nella vita condivisa.

a cura di Elena Goisis
da "Nuovo Progetto" Aprile 2004


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