Se bruci, riscaldi

Publié le 14-08-2012

de Mauro Tabasso

Di Mauro Tabasso - A scuola da un grande maestro. Non so quando è stata l’ultima volta che ho aperto la custodia di una delle mie chitarre… Forse a L’Aquila, nell’agosto scorso.
Non le utilizzo praticamente più e me ne rammarico. Sempre più spesso mi capita di far suonare piuttosto che suonare. Far suonare altre persone, orchestre, perfino computers. E dire che da orchestrale mi sono difeso. Come chitarrista e trombettista le mie soddisfazioni me le sono tolte. Un’eurovisione, due mondovisioni e un po’ di altre cose.

Tra le motivazioni che mi hanno spinto verso la mia attuale attività musicale un posto di riguardo spetta sicuramente alla fifa. Ansia è il mio secondo nome… Sì, pensavo, a torto (molto, ma molto torto), che scrivere e soprattutto dirigere fosse un’attività meno terrorizzante. Il mio primissimo mentore, per quanto riguarda la direzione, è stato uno tra i più grandi direttori d’orchestra di tutti i tempi: Carlo Maria Giulini (foto) (1914 – 2005). Lo conobbi nel 1995, in occasione di un suo concerto a Torino. Mi fu chiesto di fargli da attendente per una settimana (scarrozzarlo dall’albergo al teatro, prove, pranzi, cene, ecc.). E vi assicuro che non mi dovettero pregare. Era Luglio. Lo andavo a prendere all’albergo e lo portavo in teatro. Lui, signore nell’animo, uomo d’altri tempi, vestito di tutto punto, giacca, cravatta, soprabito e cappello, io scarpe da ginnastica, jeans e T-shirt o polo già pezzata alle undici del mattino. Guidavo una Golf nera, non mia, e il Maestro voleva viaggiare con finestrini rigorosamente chiusi, aria condizionata spenta, ventole ferme. Fermo come la mia respirazione. Fuori 35 gradi, dentro forse 10 in più. Credevo di morire… E dicono che con la musica non si suda. Poi, dopo le prove si andava a pranzo (sempre a spese sue). Hotel Principi di Piemonte, mica la Trattoria da Gino.
Camerieri in livrea rossa e guanti bianchi, aria condizionata a manetta. Lui aggiungeva un maglione di lambswool sotto la giacca e io per una mezz’ora smettevo di inzuppare la maglia… Mi controllava benevolmente, mi redarguiva anche, mi invitava a mangiare più sano, diceva: “Non dovrebbe mangiare quello… Scelga piuttosto questo che le fa meno male. E la frutta si mangia sempre prima”. Di quella settimana ho un ricordo pazzesco. In macchina, così come a pranzo gli facevo un sacco di domande sulla musica, sul suo repertorio preferito, sulla sua esperienza, sul suo lavoro… E lui a un certo punto mi chiese: “Ma perché le interessa così tanto il mio lavoro?”. Risposi: “Mah… diciamo che non mi dispiacerebbe provarci”. Lui mi guarda serio, deglutisce (eravamo a cena), depone le posate e si asciuga la bocca. Poi mi fissa, si china sul tavolo per avvicinarsi più a me, mi batte una mano sulla spalla e mi dice: “Se è debole di cuore, lasci perdere”.
Lì per lì non afferrai il senso della sua affermazione. Qualche anno dopo, però, quando per la prima volta mi capitò di dirigere un’orchestra vera in un contesto un po’ serio (si era in mondovisione), mi tornarono a mente le sue parole. All’improvviso capii cosa aveva voluto dirmi quella sera. Quando su un monitor dietro le quinte vidi partire i titoli di testa della trasmissione, la mandibola e le mani cominciarono a tremarmi nervosamente, involontariamente, sentii sudare freddo i palmi delle mani e le piante dei piedi, lo stomaco chiudersi, la lingua tappezzarsi, la pressione salire e i battiti accelerare come un aereo al decollo. Per un momento pensai che non sarei riuscito a dominare tutte le mie sensazioni.
Mi dissi: “Adesso, quatto quatto, fingo un malore (non devo neanche impegnarmi tanto…) mi butto per terra e mi faccio portare fuori, lontano da qui”. Poi piano piano ripresi il controllo, e mi dissi che avevo fatto troppi sacrifici, lavorato e studiato troppi anni, troppe notti per rinunciare proprio sul traguardo. Non potevo. Facendomi violenza mi costrinsi a uscire dal camerino per affrontare pubblico, telecamere e orchestra. Lo stress psicofisico della direzione è qualcosa di micidiale. Tra suonare e dirigere la fifa è in proporzione di uno a dieci. Pochi giorni fa il grande Riccardo Muti, colto da malore mentre era in prova con la sua Chicago Symphony Orchestra è caduto a terra procurandosi varie fratture. Anni fa, Giuseppe Sinopoli, un altro grande, è morto con la bacchetta in mano. E non sono casi isolati. Il mitico Giulini aveva ragione. Ci vuole proprio il cuore. Perché se non ci metti l’amore, il fuoco, la passione e l’ambizione in quello che fai, è difficile che ti logori, ti consumi, che bruci. Ma se rinunci ad amare per paura che ti scoppi il cuore, allora sei già più morto di una mummia.

DIAPASON – Rubrica di Nuovo Progetto

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