Uniti nella distanza

Publié le 30-01-2013

de Flaminia Morandi

Lui è un pediatra di sessantadue anni, la moglie ne ha sessanta. Un’età in cui oggi c’è chi si fidanza, partorisce il primo figlio o si sottopone a operazioni di chirurgia plastica per camuffarsi di grottesca giovinezza. La nostra coppia invece, in pace con la propria anzianità, convoca figli, generi, nuore e nipoti e annuncia loro la decisione presa: rinunciare al sesso per concentrarsi sul proprio cammino spirituale. Il fine della vita, spiegano ai figli, è staccarsi dal corpo: non c’è più ragione di dare retta ai sensi. Tutte le loro energie ora saranno concentrate in questa direzione. Andranno in un ashram e sotto la guida di un maestro impareranno a meditare, per fare “come la tartaruga che ritira i suoi arti”: per ritirare i sensi dagli oggetti e prepararsi alla morte con una visione ferma e stabile delle cose.

Quest’episodio recente è vero, riportato da uno scrittore, Tiziano Terzani, che ha vissuto il tempo del suo cancro come una ricerca di senso attraverso le religioni dell’oriente. Un episodio che in India si ripete sovente. Ma casi del genere esistono anche nella nostra tradizione, solo che nessuno ne parla e nessuno lo sa. Molte coppie sposate che vivono in mezzo a noi prendono in segreto questa decisione; e tutt’oggi nella tradizione cristiana ortodossa ci sono coppie che, giunte alle soglie dell’anzianità, si ritirano in un monastero, lui maschile e lei femminile; separandosi per sempre ma restando ancora più unite di prima nella preghiera e nella vita spirituale. Recentemente, un’intera famiglia greca ha preso la via del monastero: i due figli, seguiti dalle sorelle e presto dai genitori, ognuno in un monastero diverso.

Una simile conclusione di una vita familiare attiva e felice rivela , qualsiasi sia la tradizione religiosa, il senso profondo e universale della famiglia: una piccola comunità dove ognuno aiuta l’altro a diventare se stesso, a trovare la sua vocazione profonda di servizio e di creazione. Il sacramento del matrimonio è una porta d’ingresso nel mistero della Trinità, dice il filosofo religioso francese Olivier Clément.
Dio è Amore, ed è Lui la fonte della comunione, che è nello stesso tempo unità e alterità. Il rito religioso è tanto importante proprio perché dà la consapevolezza della dimensione di trascendenza che c’è nell’unione di due persone. Quando ci si sposa in chiesa, con la stessa forza del sacramento si entra nel mistero dell’unità-diversità di Cristo, che è il mistero stesso di Dio, l’unico Maestro che insegna ad amare.

L’unità-diversità del mistero divino si ripete nella relazione con i figli. L’amore per i figli ha un esito felice e costruisce delle personalità sane e salde se per il padre e la madre i figli sono “dei piccoli sconosciuti da amare e mettere al mondo spiritualmente, dopo averlo fatto carnalmente, attraverso un lungo servizio disinteressato”.
L’amore dei genitori è un servizio, e non un possesso geloso che costringe i figli prima a una tenerezza senza misura, poi al rifiuto e alla rivolta. È una perversione dei genitori, oggi molto diffusa, pretendere da parte dei figli la reciprocità dell’amore. Il Decalogo non chiede ai figli di amare i loro genitori, ma di onorarli, e questo perché i genitori, comunque essi siano - dice un commentatore ebraico - sono un’immagine divina, essendo Dio paterno e materno al tempo stesso. Se riusciamo a capire qualcosa di Dio e dei suoi sentimenti, lo dobbiamo all’esperienza di un padre e di una madre.

La paternità-maternità, quando è vera e non solo carnale, è una partecipazione alla trascendenza, un’irradiazione silenziosa che porta a Dio, una vera e propria ascesi analoga all’ascesi monastica. In un monastero o in un appartamento di un condominio cittadino qualsiasi grande amore - di un consacrato che si dona a Dio o di una famiglia alla cui tavola Dio volentieri siede - è allora davvero un amore crocifisso, cioè un amore vero, fondamento di una famiglia che non si spezza.


Flaminia Morandi
NP agosto/settembre 2006

 

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