Gianpiero Dalla Zuanna all'Università del Dialogo

Publié le 28-02-2021

de Matteo Spicuglia

Dentro questo inverno
Alle radici della crisi delle nascite. Ne parliamo con il demografo Gianpiero Dalla Zuanna


La demografia non è questione solo di numeri, ma di vita. È la chiave per capire in che società vivremo, con tutto ciò che ne consegue. Per l’Italia sono anni di inverno demografico: nel 2020 appena 400mila nuovi nati, erano più di 600mila nel 2008, un milione nel 1964. Una tendenza che secondo la rivista Lancet porterà il nostro Paese a dimezzare la popolazione nel 2100. «Quello che sta accadendo è proprio un ribaltamento», dice il prof. Gianpiero Dalla Zuanna, docente dell’Università di Padova, tra i demografi italiani più autorevoli.

In che senso?
«Fino a qualche decennio fa la popolazione dei Paesi che ora chiamiamo ricchi era relativamente numerosa, con una vitalità tale continuare a rinnovare le proprie generazioni. Ora, ormai da decenni, nei Paesi ricchi, il numero di bambini che nasce, è più basso rispetto al numero necessario per il rinnovo ordinato della generazione».

Questo cosa vuol dire?
«Semplice, una generazione si rinnova se il numero dei figli è uguale più o meno al numero dei genitori. In Italia adesso abbiamo un numero di figli molto inferiore, più o meno 1,4 figli per donna. Il che vuol dire che da una generazione all’altra tendenzialmente la popolazione diminuisce di un quarto. Non solo, da noi sono diventati genitori i figli del calo delle nascite degli anni ‘70 e ’80, per cui abbiamo un’ulteriore riduzione delle nascite».

Una società in cui nascono meno bambini che società è e diventa?
«Le conseguenze della bassa fecondità sono prevalentemente negative perché portano in generale a una cattiva sostenibilità del sistema di welfare. Noi viviamo in un sistema di tipo solidaristico, dove sono le persone che lavorano a pagare le prestazioni. Pensiamo alle pensioni, alla scuola, alla sanità. È una caratteristica del nostro continente. Tuttavia, l’Europa per mantenere questo tipo di organizzazione ha bisogno di un numero sufficiente di lavoratori, di persone che producono reddito, che pagano le tasse, che si fanno carico dei più giovani e dei più anziani. Se il numero è troppo basso evidentemente non è più possibile pagare le pensioni, non è più possibile pagare la scuola pubblica, non è più possibile sostenere un sistema di solidarietà sociale. Ecco perché uno squilibrio demografico si traduce in una sofferenza generale».

Come se ne esce?
«Solo in due modi: o attraverso le nascite oppure attraverso l’immigrazione. In Italia, per esempio, i fenomeni migratori hanno cambiato profondamente le carte in tavola, in passato hanno riempito alcune voragini che si erano create nel mercato del lavoro, in particolare sul mercato del lavoro manuale, e ha permesso alla popolazione di mantenere un certo reddito. Non deve esserci comunque una opposizione tra migrazioni e fecondità. Se vogliamo un equilibrio, abbiamo bisogno che entrambe queste leve abbiano la possibilità di esplicitarsi in modo organico e in modo armonico».

Cosa c’è dunque alla base di questo calo delle nascite?
«È fondamentale una premessa. Tutti gli studi ci dicono che quando a una coppia viene chiesto quanti figli desidera, la risposta è sempre 2 o 3, l’opposto di quanto poi avviene. Significa che a livello individuale abbiamo un rimpianto, una mancata realizzazione delle aspettative, del desiderio di fertilità e di fecondità che la gente manifesta. Questo aspetto non va bene. Vuol dire che sono in gioco fattori di tipo sociale, di cattiva organizzazione della società. In Italia il tema è evidente, a differenza di altri Paesi europei come la Francia o quelli scandinavi dove nascono molti più figli».

Qual è la differenza?
«Quei Paesi hanno politiche fiscali diverse e una rete di servizi alla famiglia più efficace. Questo fa sì che avere un figlio in più non venga percepito dalle coppie come un ostacolo. In Italia, poi, interviene un altro problema, ovvero la forte precarietà che colpisce in particolare la prima fase dell’approccio al lavoro delle persone. In Italia è abbastanza normale trovare un posto di lavoro a tempo indeterminato dopo i 30 anni. Quindi, praticamente quasi tutti i giovani si bruciano la prima metà della vita fertile e continuano a pensare di aver figli più avanti. I giovani italiani sono impelagati in continui contratti a termine che si susseguono l’uno dopo l’altro senza portare a percorsi di stabilizzazione che favoriscono la nascita dei figli».

È possibile quindi invertire la tendenza?
«Bisogna sfatare l’affermazione per cui la gente non fa figli perché è diventata egoista, altrimenti dovremmo chiederci perché i francesi sono meno egoisti degli italiani! È insensato! È vero che siamo in una società dove conta molto l’individuo, conta molto la sua realizzazione, però è anche vero che in altri Paesi europei fra gli elementi per la realizzazione individuale c’è anche il fatto di diventare genitori. Bisogna dunque rimuovere gli ostacoli e seguire l’esempio di altri Paesi. Un esempio molto interessante è quello della Germania, che nel primo decennio di questo secolo aveva meno figli rispetto all’Italia e invece oggi ha una fecondità superiore alla nostra».

Cosa hanno fatto i tedeschi?
«Fondamentalmente tre cose: hanno reso più accessibili e più facilmente fruibili i servizi per la prima infanzia, hanno allungato il congedo parentale in occasione della nascita di un figlio e, cosa più importante, hanno emesso l’assegno unico per i figli. Per ogni bambino tedesco dalla nascita ai 18 anni lo Stato versa ai genitori mediamente 200 euro al mese in più. Non è che lo Stato deve entrare nella camera da letto delle persone, ma rimuovere, come tra l’altro è scritto nella Costituzione, gli ostacoli che impediscono alla gente di avere i figli che vorrebbe».

Quindi è sbagliato seguire le sirene di chi dice che la famiglia come progetto di vita è in crisi…
«La famiglia è tutt’altro che in crisi nel senso che in realtà ci sono poche cose così forti in Italia come i legami di sangue, quelli tra genitori e figli e tra fratelli. Quello che semmai è in trasformazione è il rapporto di coppia. La famiglia è più forte che mai, per certi versi anche troppo forte, nel senso che la sua forza fa sì che altre organizzazioni sociali vengano messe in secondo piano. Ad esempio, perché abbiamo un welfare riferito ai non autosufficienti che è molto inferiore rispetto a quello che servirebbe? Perché le famiglie si sono arrangiate, specialmente attraverso il meccanismo delle badanti».

La famiglia da sola però non va da nessuna parte. Ha bisogno di essere sostenuta, aiutata, anche accompagnata. Spesso si dice che per educare un bambino serve un villaggio… Come si fa quando le reti educative mancano?
«Il villaggio bisogna un po’ costruirselo. Nelle società di oggi che sono tendenzialmente anonime, atomizzate, dove ognuno sta per sé, ognuno conta per le cose che fa più che per le cose che è, dobbiamo sentire l’urgenza di costruire delle reti educative, delle reti educanti. Vuol dire che bisogna anche creare per i ragazzi delle possibilità di mettersi alla prova, della possibilità di avere luoghi protetti in cui possono anche sbagliare e scoprire le loro capacità. Da questo punto di vista senza dubbio i decenni che abbiamo avuto di bassa fecondità non aiutano, perché i bambini hanno una quantità di cugini o fratelli minore. Il fatto di essere figli unici per esempio non aiuta a costruire reti. Ma dobbiamo farlo ugualmente attraverso gli amici, realtà che stimiamo, persone».

Quanto ci vuole per recuperare il tempo perduto? E soprattutto, gli effetti della situazione attuale quanto dureranno?
«Purtroppo la demografia ha tempi di recupero piuttosto lenti perché questi 400mila che sono nati nel 2020 rispetto ai 600mila che erano nati nel 2008 vorranno dire che fra sei anni ci saranno classi molto meno numerose rispetto a quelle del 2014. La demografia è fatta di onde. Le migrazioni regolate possono essere una risposta, ma non è l’unica. Non avremo alcun recupero demografico senza un processo di sviluppo migliore. Con la stagnazione, o addirittura col declino della ricchezza, anche la demografia va a farsi benedire. I bambini che abbiamo persi non li possiamo recuperare, ma con lo sviluppo la struttura demografica può diventare più vivace».

Che influsso avrà la pandemia?
«I demografi si stanno interrogando su questo. Il primo effetto del Covid è stata una gelata. Quando c’è una malattia e ci sono morti, la gente diventa più prudente, magari aspetta di vedere un po’ cosa succede prima di fare figli. Per il futuro, dipenderà da quando torneremo a una normalità. È possibile che ci sia un recupero demografico, cioè che chi desiderava un figlio decida di averlo. Anche noi studiosi siamo curiosi di capirlo».

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