La Betlemme della fede

Publié le 25-12-2008

de Giuseppe Pollano

La Betlemme della fede scopre nella nascita di Gesù il disegno immenso di Dio. 

 

La Betlemme della storia rappresenta il fatto accaduto, una donna che dà alla luce il suo primogenito; la Betlemme della fede, proprio per la luce interiore che ci illumina, scopre in quel piccolo fatto della storia il disegno immenso di Dio.
La scena così lontana che è avvenuta a Betlemme ridiventa potentemente la scena di sempre: la nostra fede continua a guardare, non finisce di imparare, di credere e, ancor più, di impegnarsi. Quel piccolo bambino, in tutto simile ai miliardi di piccoli bambini che nacquero, nascono e nasceranno, in realtà è il grande arrivo del Verbo di Dio sulla faccia della terra.

Aprendo il vangelo di Giovanni (Gv 1,1-18) leggiamo che in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio e tutto è stato fatto per mezzo di lui. Questa è la solennissima descrizione di chi è quel piccolo bambino. Aprendo la lettera agli Ebrei (Eb 1,1-6) troviamo che questo piccolo bambino è colui che con la potenza della sua Parola sostiene tutto. La Betlemme della fede diventa uno scenario sconfinato che con la sua grandezza ci lascia senza fiato tanto è grande.
Ma la fede non si spaventa e a quel piccolo bambino la fede chiede perché il Creatore è tornato. Il Verbo di Dio ci risponde con le parole dell’Apocalisse: è tornato per fare nuove tutte le cose. Non crea un nuovo cosmo, che va bene come è, ma un uomo nuovo, perché è l’uomo che non va bene come è.

A questo punto il Natale incomincia ad afferrarci tutti. Anche noi che abbiamo il dono di essere credenti e cerchiamo di essere coerenti nella fede dobbiamo ancora imparare perché non abbiamo continuato bene il suo lavoro creativo. Aprendo le prime pagine della Bibbia troviamo Caino, che comincia questo lavoro mal fatto dell’uomo sull’uomo.
L’uomo dunque, contrariamente al Dio creatore, diventa distruttore dell’altro uomo e questa tristissima storia non finirà più, è in atto. Giovanni Paolo II definì il secolo passato il secolo di Caino, ed era un esperto di umanità, sapeva bene quello che diceva perché sapeva quel che vedeva. Dunque Betlemme della storia diventa la storia intera, con dentro noi e il piccolo bambino.

Questo piccolo bambino ci impegna. Non basta celebrare un Natale con una sincera fede. Celebrare un Natale per essere seri, sinceri, onesti con Dio vuol dire accettare pienamente il ritorno del Verbo che viene a farci nuovi. Se non si accetta, si produce un Natale debole, che passa subito. La vita di oggi è tutto un passaggio. Un sociologo dice, a proposito della modernità che stiamo vivendo, che essa si basa su un incessante divenire e cambiare continuo, una serie di nuovi inizi, un sempre ricominciare daccapo.
È vero, lo riscontriamo nei modelli sempre nuovi di tutte le cose, anche i vestiti che portiamo addosso sono sempre un po’ nuovi. In questo mondo che freneticamente vuol diventare un altro, è come se ci fosse un beffardo sorriso di qualcuno che ci guarda e ci dice: stancatevi pure da soli, non cambierete mai, sarete sempre fragili, cattivi, irascibili, orgogliosi, bugiardi, sensuali. Sicché alla domanda su perché Dio è tornato la risposta è molto chiara e diventa per noi una immensa gratitudine.

Vivere il Natale è accettare Gesù, a lui non basta la nostra fede, la nostra adorazione, la nostra ammirazione. Se non lo accettiamo come lo accettò Maria, il Natale è perduto. In Maria non vediamo solo una umile donna che diventa una umile madre, ma l’umanità che accetta il suo Creatore per tornare buona. Da questo bambino in una mangiatoia ci viene il richiamo essenziale di accettare Gesù non un’ora ogni tanto, né soltanto nella Chiesa, ma nella quotidianità della nostra vita.
È così che si fa Natale perché questo bimbo non va a nascere nel tempio, ma proprio nella ferialità della vita che caratterizza tutti. Cosa c’è di più umano e insignificante di nascere così? Già la carne è quotidianità, ma poi un bambino nella mangiatoia!

Nasce dentro la nostra vita più umile, più insignificante, che però è quella che poi ci fa vivere, perché è nella quotidianità che tu soffri, che tu parli, che tu decidi, che tu agisci; è lì il concreto della tua vita. Uno dei grandi rischi di noi Chiesa è di lasciare Gesù in una certa astrazione, vicino a noi ma non proprio dentro di noi, un Gesù che segue la nostra vita in modo collaterale ma che non la prende tutta. Ci fa paura che Cristo trasformi la nostra vita e questa sottile viltà può abitare nel cuore di tutti. Vogliamo invece offrire a lui il cuore audace, come quello di Maria: ti accettiamo nella vita quotidiana dove si mangia, si beve, si lavora, si soffre, si ama.
Fino a che punto io ho già lasciato che tu Creatore entrassi veramente nella mia vita quotidiana, nei soldi che ho o che non ho, nelle parole che dico o che non dico, nelle amicizie, nel lavoro? E dove è, Signore, che io ti considero ancora un estraneo, qual è quell’angolo della vita dove io non voglio che tu entri, come in quel perdono da dare, quel dono da fare, quell’umiltà da vivere, quella preghiera da elevare a Dio?
Questo è un primo grande pensiero, ma non basta.

Occorre donarsi al Signore. Il grande perché lo abbiamo. Infatti se domandiamo a lui che cosa ci porta di nuovo, sappiamo che ci porta ciò che non abbiamo, il linguaggio dell’amore, l’unico linguaggio universale per il quale tutti siamo stati creati. Ecco cosa ci porta questo bambino. Se lo ascoltiamo diventeremo buoni di quella bontà disarmante che vince. Se crediamo in lui avremo la carità e saremo un popolo nuovo che non appiccica il nome cristiano a qualsiasi cosa faccia comodo, adulterando tutto, ma vivendo il nome cristiano perché abbiamo la carità in cuore e la viviamo nella pratica. Lascia che la carità di Dio entri nella tua quotidianità. Non offrire a Gesù un gesto di carità estemporaneo, anche se importante. Gesù preferisce il tono della tua voce buono, il volto che sorride, il gesto cordiale: sono la carità che tocca il cuore degli altri. Non sono parole, sono subito comportamenti, sono subito scelte. Accettare Gesù significa essere un po’ più conquistati dal Signore, un po’ più presi dentro.

Maria teneva tra le sue braccia il piccolo e ne sentiva il peso, dolce, ma era un peso; l’ha preso subito nelle braccia del cuore. Signore, che oggi nasci, non voglio che tu sia estraneo a nulla della mia vita, non voglio che tu sia solo il Gesù della mia preghiera o solo il Gesù delle mie opere buone, voglio che tu sia il tutto per me, perché tu tutto ti sei dato a me. E allora la Betlemme della storia diventa la vita di ogni giorno.
Nulla è così coinvolgente come il Natale perché il Natale è Gesù che viene, poi si farà nostro pane, poi si farà nostro fratello che muore per noi. Farà tutto questo, ma è il fatto iniziale che conta. Molti cristianesimi sono rimasti verdi, non maturi, poveri, perché non hanno voluto capire l’intensità di questo dono. Ma noi desideriamo capire questa intensità, per ridonarci cordialmente a lui attraverso Maria.
Eccoci, Signore, ci consegniamo come argilla nelle tue mani. Fa di noi veramente dei discepoli, fa di noi gente la cui quotidianità si mescola alla quotidianità di altri, fa di noi gente che, proprio come te, va a cacciarsi dentro la misera quotidianità e nel dolore del prossimo. Salvaci da ogni egoismo, Signore, fa che la nostra vita a poco a poco diventi essere per gli altri.
 

tratto da un incontro all’Arsenale della Pace
testo non rivisto dall'autore
 

Vedi il focus con le riflessioni inedite di mons. Pollano in Spiritualità

Ce site utilise des cookies. Si tu continues ta navigation tu consens à leur utilisation. Clique ici pour plus de détails

Ok