Sono ricco

Publié le 30-01-2013

de Flaminia Morandi

Il denaro, si diceva una volta, è lo sterco del diavolo. La cultura del consumo e del profitto, dicono certi teologi, è una “struttura di peccato”. Preso atto che questo è il mondo in cui vive, il cristiano non se la prende troppo: il suo stesso corpo è segnato dal peccato, la sua volontà, la sua intelligenza. Sa che la strada spirituale che lo porta a Cristo è una lotta, e il discernimento incessante fra male e bene è un esercizio a cui è meglio abituarsi in fretta.

Ma anche i cristiani, che, come nella Lettera a Diogneto, vivono da stranieri in questo mondo condividendo con il proprio prossimo quello che hanno, oggi sono messi a dura prova. Il denaro sembra avere preso il posto di Dio; gli ideali sono sostituiti dalla corsa a procurarsi ciò che mette al riparo, garantisce una vita tranquilla, una bella casa, denaro ben investito, malattie sconfitte e polizze di assicurazione. Per tacere del superfluo: oggetti inutili, abiti che una vita intera non consumerà, viaggi in scatola meglio se al caldo.
Ma chi queste cose riesce ad ottenerle non si ferma qui; vuole ancora e ancora, perché sembra che nessuna conquista materiale sia abbastanza per liberarsi dalla paura. Perché il problema è tutto qui: la paura, la stessa paura che faceva nascondere Adamo al cospetto di Dio. La paura che Dio sia cattivo e non misericordioso, o che non ci sia, e all’uomo tocchi arrangiarsi da sé. Non è affare solo di oggi.>

I racconti patristici rivelano che nei primi secoli cristiani coloro che si ritiravano a vita eremitica nel deserto spesso non si liberavano di tutti i propri beni. Qualcuno se ne teneva un po’, e proprio per paura: di malattie invalidanti che impedissero di procurarsi da vivere o di un ripensamento di vocazione; insomma per aver dei soldi nel caso fossero tornati indietro. Per i monaci dei cenobi, che sceglievano la vita comunitaria, il discorso era diverso: erano obbligati a liberarsi di tutto senza eccezioni. La regola di Pacomio dice che se il monaco riceveva in dono del cibo doveva portarlo al superiore perché lo spartisse fra tutti; nessuno poteva prendere nulla di ciò che era comune senza permesso, neanche il materiale di lavoro; né ricevere o tenere niente nella sua cella senza il permesso del superiore, o scambiarsi un oggetto con gli altri monaci. Il monastero non doveva avere chiavistello alla porta, i suoi monaci erano invitati a dare il benvenuto ai ladri e a non fuggire davanti ai briganti.

In tutti i casi però, per i cenobiti e per gli eremiti, la povertà non è un fine; è un mezzo per essere più vicini a Dio. Il racconto del padre spirituale che insegna a pregare al giovane monaco solo quando lui sceglie di liberarsi dei suoi beni, la dice lunga: solo quando ci si è tolti il fardello della paura materiale si è pronti a fare ingresso nel mondo della preghiera. La povertà è una condizione necessaria per pregare, perché solo chi è libero può avere una visione chiara di Dio. E non è questione di quantità di denaro o di beni, è questione di relazione: anche tra un uomo e un piccolo oggetto può esserci una relazione possessiva. Perciò il monaco che teneva da parte il denaro per paura delle malattie se ne libera proprio quando sta per subire l’amputazione ad una gamba: ora che ha perso tutto, è pronto a fidarsi solo di Dio. Perciò il monaco giardiniere rinuncia all’amatissimo orto solo quando una battuta di un giovane confratello gli rivela il suo attaccamento.
Quando arriva il momento della consapevolezza e della maturità spirituale, l’uomo di Dio, monaco di ieri e di oggi, capisce con Evagrio che la carità non può convivere con la ricchezza: anche se la sua ricchezza è un orto, o la propria salute.


Flaminia Morandi
NP novembre 2004

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