Ansia

Publié le 07-10-2018

de Arsenale della Piazza

 
 
Sempre più frequentemente mi capita di incontrare genitori preoccupati perché  i loro  bambini  mostrano  tutta  una serie di manifestazioni che  essi attribuiscono ad uno stato di “stress”. 
E sempre più bambini – anche di soli sei o sette anni – affermano di sentirsi  “stressati”.  E  moltissimi insegnanti confessano di lavorare in un costante stato di stress e ansia,  visto che nel sistema scolastico attuale regna un clima di paura
Insomma, con chiunque mi succeda di parlare, termini come stress, ansia, paura, depressione  o angoscia vengono comunemente usati  non solo in riferimento a problemi insoliti  o a condizioni  particolari, ma semplicemente  per descrivere normali episodi della vita di tutti i giorniper riferirsi a ordinarie difficoltà o avversità.
È chiaro che viviamo in una cultura che dà molta importanza  alle  emozioni. Una tale importanza che anche il vocabolario  si sta rapidamente modificando. Oggi tutti usiamo termini terapeutici” e tentiamo spiegazioni del mondo guardandolo attraverso la lente  delle emozioni.  In particolare, nella descrizione dei comportamenti dei bambini e degli adolescenti di oggi viene sempre più usato da chiunque un linguaggio  “psicologico”. 
Consideriamo per esempio la parola “autostima”. Ho letto che una ricerca condotta nel 1980 su 300 giornali inglesi (ricerca Factiva)  non trovò nemmeno una ricorrenza del termine. Nel 1986 “autostima” compariva tre volte. Nel 1990 il numero era già salito a 103. Dieci anni dopo, nel 2000, venne rilevato ben 3.328 volte
E siccome oggi una scarsa autostima viene percepita come un problema serio, è chiaro il perché questo vocabolo è finito sulla bocca di tutti. L’autostima preoccupa quando manca, così come  preoccupano  altre carenze emotive
Domina  ormai l’assoluta  convinzione che gli  individui e la società soffrano di un deficit emotivo, una sorta di malattia invisibile che mina la capacità  di  tenere sotto controllo la propria 
esistenza.
Altra parola da sorvegliare: depressione”. Si sente spesso dire che il numero dei bambini  colpiti  da depressione  è in aumento: secondo uno studioso (Terence Real, 1999negli Stati Uniti la depressione è un flagello peggiore della povertà e dall’inizio del  ventesimo secolo la sua incidenza  è raddoppiata. 
E secondo un altro ricercatore (Gus Thompson dell’Università di Alberta, Canada) questa incidenza cresce con il diminuire dell’età, probabilmente a causa del maggior numero di traumi infantili subiti negli ultimi decenni dai bambini.
Tesi piuttosto discutibile, a dir la verità, perché è davvero difficile credere che negli ultimi anni la nostra società occidentale sia diventata più violenta di un tempo proprio con i più piccoli.
Forse ad essere cambiata è l’immagine del trauma che ci siamo recentemente costruiti! Oggi abbiamo paura di non avere sufficienti capacità di resistenza alla semplice fatica, agli inevitabili  fallimenti, alle banali  delusioni. 
Così, molte esperienze che un tempo  erano  considerate normali  sono vissute ora come “traumatizzanti” e il mondo esterno viene visto come fonte di costante pericolo. Il senso di impotenza che ne deriva non ha precedenti e diviene esso stesso sorgente di paura e di ansia.
L’uomo di oggi si sente vittima delle circostanze della sua esistenza. Ma davvero siamo diventati tutti così fragili?  Siamo  incapaci di affrontare le prove della vita? E tutte le fasi della  vita stessa, dalla  nascita alla morte, comportano per forza dei gravi rischi? Domande che ancora troppo pochi si pongono. Cominciamo noi. Fragili sì, ma non vittime.
 
Gabriella Delpero
Da Psiche, rubrica di Nuovo Progetto, maggio 2018
www.sermig.org

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