Mysterium Crucis: Amati, amiamo

Publié le 28-09-2015

de Redazione Sermig

Ernesto Olivero, fondatore del Sermig, spiega il significato della croce che i membri della Fraternità della Speranza portano al collo.

«Il segno della croce, per invocare l'aiuto di Dio, non lo potevi fare con la mano ma con la lingua tenendo la bocca chiusa». Aristide Ionescu è un sopravvissuto. Uno dei pochi del carcere di Pitesti, l'inferno in terra nella Romania comunista degli anni '40. Quel carcere, vicino a Bucarest, diventò per tanti dissidenti, tra cui moltissimi cristiani, il luogo dell'abisso. Per la prima volta, un regime applicava un esperimento nuovo, che sarebbe stato messo da parte molto presto per la sua follia: vittime e carnefici nella stessa cella, l'uso della tortura permanente giorno e notte, la depersonalizzazione che portava a rinnegare i propri cari e i propri valori: Dio, fratelli, genitori, amici.
Aristide è ogni uomo, di ogni religione, idea, convinzione, luogo. Quando la libertà è negata, la dignità calpestata, l'amore estirpato...

Ci sono anche Aristide e quelli come lui nella croce della Fraternità della Speranza del Sermig: un segno semplice, umile, quasi nascosto che però continua a parlare: dice di un dolore concreto, immenso, sproporzionato che però non si è arreso. Un dolore aperto alla gioia della risurrezione, della fatica condivisa, dell'umanità innalzata. Dice di un amore che dà se stesso, continuamente, senza sosta e invita a fare altrettanto.
È l'ideale incarnato nella croce della Fraternità della Speranza. Questo testo ripercorre tutte le fasi della sua realizzazione, dalla prima idea al risultato finale. Un cammino di anni, fatto di prove e fallimenti, di tentativi e di intuizioni. L'arte a servizio di un ideale, di quell'“Amati, amiamo” che è la chiave di tutto. Alla portata di ogni uomo, anche nel nome e nel ricordo del dolore innocente dei perseguitati della storia.

Matteo Spicuglia


Erano mesi che pensavo a quest’approfondimento sulla “croce che portiamo al collo”. Due ragioni mi separavano dal farlo. Prima di tutto, essendo quasi un inedito , mi chiedevo se era il caso che ne trattassi all’interno di questo lavoro; secondariamente, se era proprio il caso che me ne occupassi io. Dubbi, che si sono sciolti come neve al sole, quando Enrico mi ha incoraggiato a farlo, anzi a vedere in tutto ciò qualcosa di personale, autentico e originale: è proprio ciò che ci serviva. Stando così le cose, non mi rimaneva che chiederlo ad Ernesto, padre e animatore della Fraternità. Lui, che è abituato a prendere decisioni ben più stringenti, mi ha confermato con poche parole: «Se si tratta di un intervista, sarà una cosa veloce». «Già – penso io sorridendo, quando hai percorso 999 chilometri, l’ultimo te lo danno gratis». Eppure, lo scopriremo più avanti, ci sono voluti anni per arrivare a questa croce. Ernesto ha seguito passo a passo la sua realizzazione, anche quando non era ancora il momento buono e come spesso accade al vasaio con la creta, bisognava ricominciare da capo.

Questa croce è nata quando era già presente una pagina che ne parlava all'interno della Regola della Fraternità:

La croce che portiamo al collo
si ispira a croci dei primi secoli cristiani
ritrovate in una miniera di rame in Giordania,
croci che uomini e donne,
prigionieri per fede,
sfruttati come schiavi,
forgiavano con le proprie mani nell’amore per Cristo.
Questa croce
specchiandosi in quella di Gesù
fa memoria
della sofferenza e del dolore
di tutti gli uomini di buona volontà,
credenti e non credenti
di ogni epoca e di ogni parte del mondo,
schiavi, deportati, internati, torturai, uccisi
per un ideale,
per la loro fede,
nei forni crematori, nei gulag,
nelle foibe, nei campi di sterminio
o solamente disprezzati
nelle loro case, nelle loro città.
Ci ricorda
il cuore della nostra Regola,
amati, amiamo:
Gesù ci ha amati per primo,
ci ha amati fino alla croce,
mistero d’amore che sconfigge il male.
Su questa croce c’è l’impronta
Della sua risurrezione,
c’è sua Madre, Madre nostra
che fino in fondo ama suo Figlio,
che fino in fondo non Lo abbandona
e non abbandona nessuno di noi.
Portare questa croce
è dire la nostra appartenenza
al Signore e alla sua Chiesa;
ci ricorda il nostro sì totale
e la missione che il Signore ci ha affidato:
trasmettere speranza a chi soffre,
a chi ha fame di affetto, di pane e di giustizia;
formare e «riparare» i giovani nel Bene,
riportarli a Dio .

Ora, Eccoci qui, con una griglia di domande e un grande grazie. Ancor più quando ciò che fai, senti che ti appartiene e anche tu, non c’era occasione più azzeccata per dirlo, appartieni a questa croce. Da questo “Grazie”, spero, emergeranno sorprese inaspettate.

Alessandro Rossi

Come è nata l’idea di una croce all'interno della Fraternità?
Io ho scritto un canto, dove ad un certo punto diciamo: «Ed ora, incontrando me, incontrerete Dio: Dio in me». Noi dobbiamo prendere coscienza che quando facciamo la comunione Dio entra in noi, e quindi la gente, dovrebbe vedere Dio in noi. La nostra croce parte da un’intuizione, spero profetica. Gesù sulla croce non dovrebbe esserci: è risorto. Nel nostro parlare non c’è una disputa, c’è un pensiero che ci è venuto incontro e l’abbiamo lasciato vivere in noi. Improvvisamente è diventato un desiderio di avere una croce, dove si vedeva la faccia di Gesù, perché Gesù è stato parecchie ore in croce. Il suo sangue, la sua fatica, il suo dolore, sono rimasti impressi sulla croce. Allora ne ho parlato con Chiara, che ha un animo sensibile, poi una mano e un tocco artistico che parlano da sé, e ci siamo impastati in questo desiderio. Ma da subito ho fatto una riflessione spirituale che avevo dentro di me: «Chi è stato vicino a Gesù fino in fondo? Sua madre». Allora in questa croce c’è un’ombra che è una luce: è la Madonna.

Pensando a questa croce, ho subito pensato che non è l’unica all'Arsenale della Pace. Ad esempio c’è “la croce dei dolori del mondo” di Fra Costantino Ruggeri. Ma “la croce che portiamo al collo”, è l’unica pensata, pregata, realizzata dalla Fraternità. Possiamo dire che ha un “sapore particolare”?
“La croce dei dolori del mondo” ci è stata offerta da frate Costantino. Stando con noi una settimana, mi disse: «Vi voglio offrire una croce che vi rassomigli». Lui aveva visto che eravamo impastati con l’umanità, coi dolori del mondo. Allora ha fatto quella croce che per me è magnifica: dove resurrezione è il bianco, morte è il rosso e le due trame s’intrecciano insieme. E con tutti quei settantasette chiodi che sono stati messi a caso, ma sono settantasette, che rappresentano i dolori del mondo.

La croce di Cristo è una, come una è la Madre di Dio. Eppure, nella storia dell’arte cristiana si sono moltiplicate le rappresentazioni di croci, “Madonne”. Questo cosa ci può suggerire?
Il nostro crocifisso non vuole essere “il nostro crocifisso”. Vuole essere il desiderio che la gente, incontrandoci, noi che parliamo di Cristo, veda Cristo in noi. E veda la sintesi di uno dei comandamenti di Gesù: l’amore è dar da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, accogliere lo straniero… (cf Mt 25). Chi mette un simbolo di croce qualunque esso sia con qualsiasi sfumatura, deve poi portare la gente a dire: «guardate come si amano, guardate che saggezza». Cioè, dovrebbero vedere in noi un vangelo vivente.

Venendo alla “croce che portiamo al collo”, qual è stata la sua genesi? Nel pensare a questa croce, ci sono altre croci che l’hanno ispirata? Ti viene in mente un episodio, una situazione (per esempio la croce di fra Costantino) oppure si tratta di tanti punti che si uniscono?
La croce dei dolori del mondo è stato un dono di un grande artista, che vedeva in noi gente che voleva dare una mano ai dolori del mondo in nome di Cristo. Mentre questa è stata un’intuizione, mi piacerebbe poter dire un’ispirazione.

E le croci giordane citate all'interno della Regola?
Quelle croci giordane che ci sono state regalate, raccontano di quei cristiani che erano condannati a morire, si erano fatti la croce dei dolori con del ferro, del rame. Loro che erano in una miniera, ci ricordano tutte le persone che sono morte crocifisse, uccise per le loro idee. E nella nostra Regola c’è una cosa importante: questa croce ricorda i non credenti, gli ebrei, i musulmani, i laici che sono morti per un loro ideale. Nella nostra croce c’è un’unificazione del dolore. Quelle croci, idealmente le ho volute inserire in questo dolore.

Questo stretto collegamento tra croce di Cristo e sofferenze dell’uomo di ogni tempo, “credo”, estrazione sociali diverse, mi ricorda un episodio. Era il 2 agosto 1983 e tu, con un gruppo di amici, entravate ufficialmente dal portone d’ingresso dell’ex Arsenale di armi. Ci entraste accompagnati da alcuni segni molto evidenti. Ci puoi raccontare?
Io sono entrato con la Bibbia in mano, che mi rappresenta la storia della Chiesa e la storia dell’umanità; un crocifisso regalato da padre Michele Pellegrino, che gli avevano regalato i carcerati, quindi il dolore; e due libri di una mia amica non credente. Per cui entravo a nome dei non credenti, dell’umanità che soffre, della Chiesa, della profezia della Chiesa e anche dei non credenti: nel nostro cuore c’è questa unificazione.

In genere le croci hanno soltanto una facciata, mentre questa presenta anche un retro. Che cosa vi è impresso? E che collegamento c’è tra questa croce e la Regola del Sermig, che tu hai scritto il 6 agosto del 1997 a San Paolo del Brasile?
Il retro è poi la sintesi: “amati, amiamo”. Dio ci ha amato, noi lo amiamo, e lo amiamo attraverso le persone che Lui ci fa incontrare nella nostra vita. “Amati, amiamo” è questa sintesi. Un giorno dom Luciano è rimasto colpito da queste due parole che avevo scritto sulla mia agenda. Ci sono delle parole che non devono essere spiegate, come certe fotografie che uno deve capire.

Cosa significa per voi oggi, portare questa croce al collo?
Deve essere una gioia prima di tutto. Ma poi un’indicazione: «io sono un cristiano, in me dovete vedere Gesù».

Quando pensi a Gesù sulla croce, quali pensieri ti vengono in mente?
È la preghiera che ho scritto oggi per il “Buona giornata”:

Quando penso alla tua vita
Gesù,
alla tua bellezza
alla tua semplicità
che porta sempre oltre
quando penso ai pregiudizi
alle calunnie che hai patito
mi stringo a te
ancora di più
voglio starti più vicino
come Giovanni
l’amico speciale
vicino al tuo cuore.

E vorrei che noi della Fraternità fossimo chiamati “gli amici di Gesù”. Per starti vicino, per fare tutto quello che tu vuoi, per fare la tua volontà. La tua volontà è certamente che stiamo vicino alle persone che soffrono, alle persone che ci chiedono preghiera, e noi le ricordiamo ogni giorno ad una, ad una.

Questo articolo fa parte di una documentazione che nei prossimi giorni verrà pubblicata interamente.

 

 

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